Recensioni

Gli indiani di Ascanio Celestini

ph Michelle Davis

Che fine hanno fatto gli indiani Pueblo è uno studio di Ascanio Celestini visto al Pistoia Teatro Festival per la seconda parte di una visione tripartita: Laika, Pueblo e I Draghi. Questi i tre titoli che comporranno la trilogia, tre scorci sugli esclusi, dei quali «normalmente parliamo solo quando succede qualcosa di grave […] è come se non vivessero neanche nella Storia degli Uomini», come ci racconta lo stesso autore da noi intervistato. Il palco montato all’interno della Fortezza Santa Barbara di Pistoia è occupato da due sedie e da due tavoli: da quello di sinistra escono note, da quello di destra parole; le parole degli e sugli esclusi, gli alienati dalla Città moderna, i relegati nella periferia urbana e in quella sociale. Il tutto immerso in una densa caligine opprimente, che, soffocando la distanza emotiva fra noi e loro, ci collega al moto patetico di queste storie verosimili del presente ostracizzante.

Il filo rosso dello spettacolo è il luogo, la compresenza spaziale dei narrati ci consegna l’eterogeneo corpus di queste emozionali vite trascorse sul confine fra “il limite del buongusto” e “la verità del presente che non dà scampo”. Violetta, Domenica, Said, un padre e uno zingaro sono i personaggi che prendono vita grazie alle incisive musiche di Gianluca Casadei e alla commovente eloquenza di Ascanio Celestini. La gentilezza nel lavoro attoriale è toccante, i pochi gesti del narrante si stagliano immensi nella visione spettatoriale, la dizione marcata e geograficamente flessa ci consegna un atmosfera totalizzante e il tutto ci fa letteralmente respirare i luoghi e le sensazioni dei raccontati.

Violetta lavora come cassiera in un grande magazzino, porta avanti la sua mansione con cruenta gentilezza e profondo rispetto per sé e gli altri: è una regina quando inforca il trono di fronte al nastro, quando i sudditi le consegnano la merce che lei, generosamente, struscia e concede… il latte, il pane, gli insaccati, i soldi sono solo doni che le vengono porti e che lei elargisce regalmente accompagnandoli con «grazie, arrivederci». Ma fuori dall’ambiente protetto, dal crogiuolo di anime che si delineerà con il prosieguo del testo, la sua vita è monca, priva di legami se non quello con il padre defunto e quello con Domenica. Una donna che proprio in quel grande magazzino aveva trovato rifugio; la sua America è stato il gabbiotto della guardia notturna, nel quale, in seguito ad una vita segnata dall’iniziazione paterna al borseggio e continuata con angherie, silenzi e solitudine, la giovane ragazza rom aveva trovato una sorta di quiete, la sua sorta di quiete o comunque una prospettiva accettabile.

Domenica inizia a svolgere piccoli lavoretti per il grande magazzino, quasi come per guadagnarsi quel posto riparato e quella merce in scadenza con la quale riesce a sostentarsi senza chiedere l’elemosina. Il suo piccolo angolo di Mondo lo aveva trovato e, in un certo senso, lo guadagnava ogni giorno, lo sudava. Con questi piccoli gesti di generosità di chi le sta intorno si era ripresa una sua dignità, un rispetto verso sé stessa. Attraverso di lei si intrecciano altri due rapporti e altrettanti personaggi: Said, lavorante come facchino nel magazzino dello stesso locale, e lo Zingaro. Con il primo ha una relazione amorosa e il loro rapporto si erge sulla bellezza delle piccole cose, dei piccoli traguardi – anche se mai raggiunti – e dell’eterno aspettarsi anche dopo l’espulsione di lui; con il secondo il rimando è al passato, alla propria giovinezza, all’apprendimento “dell’arte” e ai primi furti.

Con questi ultimi si tesse in modo analessico l’ultimo personaggio, il padre che infine chiuderà la visione circolarmente tornando su Domenica; l’uomo, ormai non più genitore racconta la storia del suo, purtroppo fu, figlio affetto da una malattia degenerativa che lo ha portato alla morte. «Il mio piccolo cuore di cane» dice il padre raccontando di quando il figlio, mangiando le more selvatiche, si cospargeva di un liquido dal color sanguigno. Nella mente dello spettatore qui si apre la questione di Poligraf Poligrafovič Pallinov, il personaggio praticamente teriomorfo del romanzo di Bulgakov: il suo essere borderline, specchio orribile di una società che, professando alti valori, si fa, in realtà, carnefice di sé stessa.

ph Michelle Davis

La chiusura del testo si apre con lo sguardo dell’uomo che giunge al marciapiede su cui giace l’anziana Domenica morta, dopo aver bevuto il tanto amato cappuccino decaffeinato, e sul quale si affaccia la porta di un bar sul cui ciglio sta il ragazzo rom che scherniva il figlio perché paraplegico. Alla fine si arriva in Paradiso: un luogo di tutti e per tutti.

Il testo potrebbe essere un elogio al rispetto verso se stessi e la tensione di fondo, che mi ha profondamente colpito e commosso, penso sia la ricerca non della felicità bensì dell’amore e del rispetto per sè e per gli altri – tema non innovativo, ma certamente da riproporre in una società che progredisce rapidamente verso traguardi inimmaginabili ma che involve forse ancora più celermente perdendo il terreno della socialità.

Edoardo Altamura

 

 

“La signorina Else”: vivisezione di un personaggio

Un cadavere coperto da un telo, sul tavolo al centro di una sala di anatomia, prende vita e comincia a raccontare la sua storia: così ha inizio La signorina Else, monologo di Schnitzler per la regia di Federico Tiezzi, presentato in anteprima al Pistoia Teatro Festival. Le luci illuminano a giorno l’antico Teatro Anatomico dello Spedale del Ceppo, creando un’atmosfera sospesa nel tempo; i pochi spettatori – la sala ha una capienza massima di 25 persone – hanno compreso già entrando di stare per assistere ad un evento irripetibile, in perfetto connubio con la location scelta. Sfruttare il Genius loci, cioè interagire con l’insieme delle caratteristiche connaturate ad un particolare ambiente anziché ricostruire una scenografia, è stata una delle cifre costanti del Festival; una scelta coerente quanto rischiosa che nel caso de La signorina Else oltrepassa i confini della funzione drammaturgica, arrivando a immergere lo spettatore nell’orizzonte claustrofobico della protagonista.
Nonostante l’indubbio valore estetico (l’architettura settecentesca, i motivi ornamentali che decorano il soffitto e le pareti, i bassorilievi) la Sala Anatomica rimane un luogo congegnato tra il 1770 e il 1780 perché pochi studenti, guidati da un insegnante, assistessero alla dissezione di un cadavere. Questa consapevolezza restituisce un duplice effetto: da un lato un soffocante senso di oppressione, amplificato dal calore delle luci proiettate attraverso i vetri, quasi che il tutto si svolgesse sotto una gigantesca lente di ingrandimento; dall’altro la freddezza clinica (e cinica) con cui uno scienziato si rapporta ad una cavia da laboratorio. Le musiche barocche, in stridente contrasto con il dramma, sono eseguite
nell’anticamera sopra un “giardino” di erba sintetica – nella finzione il giardino dove la piccola Else usciva a giocare – da un’orchestrina di tre elementi: Dagmar Bathmann al violoncello, Omar Cecchi al pianoforte e alle percussioni, Dusan Mamula ai clarinetti. L’ambientazione spoglia di tipo “ospedaliero” non è nuova alla regia di Federico Tiezzi: memorabile la sua Antigone del 2004, in cui la scenografia ricostruiva un obitorio. Antigone e gli altri personaggi erano – come Else – morti che si rialzano dal velo che li copre, tornando in vita il tempo necessario a raccontare la loro storia.
Il dramma ha inizio quando la diciannovenne Else, in vacanza a San Martino di Castrozza, riceve una lettera dalla madre, venendo a sapere che il padre, coinvolto in un caso di corruzione, rischia la galera. L’unica che può salvarlo, scrive la madre, è proprio Else, cercando l’aiuto di Von Dorsday – amico benestante della famiglia, per coincidenza ospite del suo stesso albergo – con l’impegno di blandirlo ad ogni costo. Else viene dunque spinta dai genitori a prostituirsi per la loro convenienza, minando alla radice la sua fiducia – e quella dello spettatore – nel nucleo più intimo, quello familiare.

Ph. Luca Manfrini

La regia di Tiezzi, più che per la resa visiva (tra le invenzioni più riuscite, una casa di bambole che riproduce in scala il luogo in cui si svolge l’azione) brilla per la profondità psicologica e per la fedeltà al monologo interiore di Schnitzler, dove Else è sì fragile, ma anche civetta ed esibizionista. L’indifferenza con cui la famiglia la offre “in pegno” a Von Dorsday non distrugge l’innocenza di una bambina, ma la spontanea curiosità di una ragazza in preda ai primi turbamenti sessuali. Else in un primo momento pensa di potersi effettivamente sacrificare per il padre, cerca di mettersi alla prova e capire fin dove si può spingere, quanto può offrire, mentre precipita nella crisi che la conduce al suicidio.
Non è solo lo stato d’animo della protagonista, ma l’ipocrisia di un’intera società a subire un procedimento di dissezione nell’opera di Schnitzler. I valori sono solo maschere, pura apparenza sotto la quale trionfa il cinismo. Non a caso nella novella originale è il Carnaval di Schumann (letteralmente carnevale, o ballo in maschera) ad essere eseguito dall’orchestra nella sala da concerto dove Else si lascia infine svenire, dopo aver assunto i barbiturici. Tiezzi riprende il tema del mascheramento facendo indossare ai personaggi secondari del dramma (medici e inservienti) inquietanti maschere animali. Lo stesso Von Dorsday entra in scena con una testa di coccodrillo, ma in questo caso la funzione è ribaltata: quello del crudele predatore è il suo vero volto, mentre la maschera è quella del borghese temperato.
Ma a dare vera sostanza allo spettacolo è soprattutto la prova attoriale dei protagonisti,
Lucrezia Guidone (Else) e Martino D’Amico (Von Dorsday), che riescono a restare sul filo della quarta parete pur rimanendo ad una manciata di centimetri dagli spettatori. Ad una distanza così ridotta non si possono fingere le lacrime, il sudore, il senso di angoscia che la performance della Guidone – non priva di momenti di disturbante erotismo – riesce a restituire. Circondata dagli spettatori, sezionata dai loro sguardi, ricambia talvolta fissandoli a lungo, come per chiamarli in causa. Il conflitto interiore è messo a nudo, offerto senza pudore agli spettatori come in un kammerspiel senza filtri, dove la prossimità all’azione drammaturgica si fa a tratti eccessiva: alcuni reagiscono in effetti con un certo imbarazzo, come se Else, accettando l’infame proposta di Von Dorsday, potesse finire per denudarsi davvero di fronte a loro.

Alfredo Marasti

(visto il 16 giugno 2017)

Il Cammino Popolare di Virgilio Sieni chiude il Pistoia Teatro Festival

I cittadini di Pistoia protagonisti della chiusura del Pistoia Teatro Festival.

Se questa performance necessitasse di un sottotitolo senza dubbio sarebbe: Saggio su come condividere uno spazio. Ma l’ultima coreografia ideata da Virgilio Sieni ha il pregio di esaurire ogni commento superfluo con l’azione. Cammino Popolare non esordisce a Pistoia, ha un suo antecedente a Milano, anche lì cittadini e danzatori mescolati tra di loro, creavano questa massa in continuo e ordinato movimento, intervallata da coreografie collettive o divisa in piccole cellule indipendenti, ma assolutamente armoniche tra di loro. La forza di questo progetto sta nell’idea di comunità di Sieni, clamorosamente inclusiva se contiamo i tempi in cui viviamo, e fondata su una solidarietà che non si dissolve con la parola (o la promessa politica), ma che trova la sua dimensione ideale nell’azione, nel gesto. Naomi Berrill, sotto il porticato di Piazza Giovanni XXIII, suona il suo violoncello e canta delle arie astratte e impalpabili, senza parole ma solo suoni, le corde vengono sfregate o pizzicate alternando melodia e ritmo, in base al momento vissuto dall’azione coreografica in piazza. Pistoiesi e danzatori dei Cantieri del gesto si presentano come il Il quarto stato di Pellizza da Volpedo, all’epoca eravamo appena entrati in nuovo secolo, e quella fiumana di lavoratori pretendeva nuovi diritti. Non c’era violenza nel popolo rappresentato da Pellizza da Volpedo, non c’era un’arma, non c’era odio, semmai c’era rabbia, repressa spesso col sangue, e c’erano famiglie, quel dipinto fra l’altro ricorda in modo chiaro la struttura classica del fregio. Sotto il fregio robbiano abbiamo visto certamente lavoratori, abbiamo visto famiglie, ma il contesto contemporaneo comunicava anche tanto altro. In un momento storico in cui noi, un paese del così detto primo mondo, ci ritroviamo a lottare per un lavoro dignitoso o per una pensione modesta, parlare di inclusione, solidarietà e partecipazione sembra quasi un ossimoro. Sembra che oggi ogni cosa debba passare per la violenza, che sia terroristica o verbale, le divisioni sociali si sono inasprite, la discussione politica non trova il dialogo che però il voto pretende, la mediazione perché non c’è una forza trascinate che convinca gran parte degli europei. Sieni in questo contesto, riduce il tutto a Pistoia, anzi: ad una pizza di Pistoia, e la fa vivere. In senso letterale però. La camminata parte dalla loggia e attraversa tutta la piazza fino all’estremo opposto, per poi tornare alla loggia in un ciclo continuo. Da questa migrazione senza fine ogni tanto si staccano dei terzetti, quintetti e sestetti che compongono coreografie autonome che vengono assimilate dalla massa ad ogni suo passaggio. I terzetti sono spesso le coreografie più dinamiche, c’è sempre un danzatore che si accascia, cade, e altri due che lo aiutano, con le mani gli sorreggono la testa, come in una pietà michelangiolesca collettiva.

 

Ph. Michelle Davis

 

Gli altri gruppi coreutici viaggiano a due velocità, ci sono quelli elegiaci degli anziani, che compiono dei gesti che ricordano vividamente quelli dei più giovani, ma più posati e ragionati, distesi e privi d’urgenza. Poi ci sono gli adulti, i più drammatici nelle composizioni, che vedono corpi cadere in mezzo a decine di braccia, oppure copri alzarsi al cielo, portati in giubilo, come in una laica domenica delle palme. L’inclusione, la solidarietà, la comunità, tutti concetti che vengono espressi con una vitalità trascinante. I danzatori cadono, ma vengono rialzati, strisciano ma vengono rialzati, non sono mai lasciati da soli, non sono mai isolati. Ognuno di loro è diverso, indossa vestiti da colori diversi, hanno delle età molto diverse fa loro, gli anziani non possono mettersi a quattro zampe, le donne incinta non possono lanciarsi in una corsa a perdifiato, ma proprio come ne Il quarto stato, c’è qualcuno che lo farà anche per loro, l’importante è stare uniti, coesi. La forza deflagrante di questa unione era palpabile tra il pubblico pistoiese, rapito dalla bellezza di tale fiumana, quasi come se appartenesse ad un altro tempo o ad un altro luogo. Ed invece era proprio lì, davanti a noi, a mostrarci che tutto è possibile se invece di dividerci ci sorreggiamo a vicenda.

 

Giuseppe Di Lorenzo

SCOPPIA UN NUOVO CASO DI FEBBRE “MOSCHETTIERA”

D’Artagnan e I Sacchi di Sabbia scoprono l’America degli anni 30

«Tutti per uno, uno per tutti!» è la sintesi esemplare con cui la letteratura riesce a svelare il cuore di storie vere. È il celebre motto conosciuto da grandi e piccini, quello dei moschettieri del re di Francia Luigi XIII, partorito dalla penna di Alexandre Dumas (padre) nel celebre romanzo d’appendice I tre moschettieri (1844). Lo abbiamo letto sui libri, sentito alla radio, alla televisione, al cinema e ora anche in teatro. Capitanata da Giovanni Guerrieri, la compagnia I Sacchi di Sabbia crea una nuova puntata di quella che negli anni Trenta fu considerata in Italia la prima rivista radiofonica di grande successo: I 4 moschettieri. Lo sceneggiato, creato da due giovani piemontesi quali Angelo Nizza e Riccardo Morbelli, musiche di Egidio Storaci, è andato in onda dal 1934 al 1937. Su invito di Santarcangelo 2014, all’interno del progetto “Radio Days”, la compagnia toscana I Sacchi di Sabbia realizza per Radio 3 un sequel de I 4 moschettieri, dedicato proprio a Nizza e Morbelli. In seguito, nel 2015, da un’idea di Rodolfo Sacchettini e Giovanni Guerrieri, nasce da questa esperienza un radiodramma animato, uno spettacolo teatrale portato in scena in tre puntate in occasione del progetto “Infanzia e città”: I 4 moschettieri in America. Oggi, in occasione di Pistoia Capitale Italiana della Cultura 2017, con la collaborazione dell’Associazione Teatrale Pistoiese, I Sacchi di Sabbia ripropone all’interno del Pistoia Teatro Festival la “febbre moschettiera” che ha contagiato l’Italia degli anni Trenta, e ci restituisce in chiave moderna il prezioso gioco sonoro che tanto ha affascinato i primi ascoltatori del mezzo radiofonico, mescolando diversi linguaggi all’interno della macchina scenica: recitazione, illustrazioni, musica, canto, effetti sonori rumoristici tipici del radiodramma e persino il teatro di figura e il teatro delle ombre, in un pastiche che si avvale di numerose contaminazioni.

Ph. Michelle Davis

Tre gli attori in scena, proprio come i moschettieri, che poi sono quattro, come dice uno dei personaggi durante lo spettacolo. E quattro sono, in effetti, le figure che animano I 4 moschettieri in America. Giovanni Guerrieri, dotato di cappa e spada, è l’unico moschettiere in carne e ossa. Interpreta il personaggio di Athos e interagisce con i suoi compagni interloquendo con voci off dalla natura marcatamente fumettistica. Ha un accento francese che, come precisa più volte, sta perdendo da quando si è trasferito negli States. Giulia Solano e Giulia Gallo raccontano gli antefatti, in abiti neri e vagamente formali vestono i panni del narratore. L’una tiene il tempo con una cadenzata modulazione verbale, mentre l’altra canta le vicende della storia sulle note già utilizzate nella trasmissione originale. Entrambe asettiche e impassibili incrementano in questo modo l’effetto parodistico della loro funzione scenica. Guido Bartoli disegna in tempo reale, dà vita ai personaggi di cui sentiamo solo le voci e insieme ai tre attori vivacizza la scenografia in una commistione di teatro e fumetto, come se si trattasse della rappresentazione di una graphic novel. Tutti fanno tutto, ora animano la scenografia mobile costituita da pannelli di legno che, da cornici per le tele di cartone su cui si disegnano personaggi e paesaggi, si trasformano in porte utilizzate dai protagonisti per sfuggire ai loro inseguitori; ora incarnano gli stessi protagonisti della vicenda, indossando all’occorrenza maschere e costumi sagomati su cui sono ritratti i corpi e i volti dei vari personaggi; ora, attraverso l’uso di torce e piccole silhouette, proiettano ombre sulla scena e persino in platea, sul soffitto del teatro, creando il dinamismo di inseguimenti e combattimenti evocato dall’incalzare della musica e delle voci registrate; ora sfogliano i grandi album interattivi che contribuiscono allo sviluppo dell’arco narrativo, mostrando al pubblico i luoghi visitati dai moschettieri.

Ph. Michelle Davis

Questi libri, infatti, vengono sfogliati in modi sempre diversi, seguendo ordini nuovi a seconda della loro funzione: permettono di far correre i quattro moschettieri, piccole sagome attaccate a delle molle dinnanzi uno sfondo che scorre attraverso un rullo, o di farli scomparire dietro porte di carta che si aprono davvero tra le pagine del libro. Così mentre Guerrieri incarna il ruolo del protagonista, gli altri si trasformano nei tipici kōken del Teatro Nō giapponese, quelle figure vestite di nero che si annullano totalmente, che spariscono alla vista del pubblico pur restando in scena. Noi non li vediamo più, concentrati e affascinati da come quei libri prendono vita sotto i nostri occhi di bambini. Così lo spettacolo non diverte soltanto i più piccoli, ma anche gli adulti sembrano seguire con piacere le avventure americane degli eroi di Dumas.
Nelle trasmissioni di Nizza e Morbelli i moschettieri girano il mondo, ma I Sacchi di Sabbia si focalizzano sul loro viaggio in America. Nello spettacolo di Giovanni Guerrieri e Giulia Gallo, con la collaborazione di Giulia Solano, i protagonisti rifuggono dalla realtà, così carica di bisogni, «perché non ci si difende a colpi di spada dai tormenti dell’anima». Cercano di fare carriera nel cinema, ma persino l’impresario di Broadway dall’accento torinese, un disegno che appare su un foglio, li rifiuta sprezzante. «Così, avvezzi solo alla pugna e al periglio, i quattro moschettieri si ritrovano pronti alla supplica e all’umiliazione pur di veder mutate in spettacolo le loro vite». Non più amati come un tempo, con le spade ormai troppo arrugginite per essere estratte rapidamente dai foderi, in un mondo che non ha più bisogno di eroi, i moschettieri cercano invano di togliersi la vita. Dopo una serie di tentativi miseramente falliti decidono di contattare l’italoamericano Nick Amitrano, un boss della malavita, per assoldare dei sicari in grado di far loro la festa. Ben presto però qualcosa cambia, il cinema li nota, la Paramount li ingaggia, e si fa largo il desiderio di recuperare la fama ormai perduta. Al grido di «Io voglio vivere!» sterminano a suon di spada i sicari e i loro mitra. Da qui in avanti si darà vita a una serie di inseguimenti rocamboleschi per le strade di New York, tra polizia, criminalità organizzata e gli stessi moschettieri, di cui noi sentiamo solo gli effetti sonori, la musica galoppante, i passi di corsa, le sirene spiegate, le voci dei personaggi, mentre la scena si anima con le ombre dei protagonisti proiettate tutt’intorno allo spazio, persino in platea.
I Sacchi di Sabbia lavorano su topoi consolidati, trovando il modo di straniarli in senso comico e rimanendo sempre in bilico tra recitazione, arte visiva, canto, teatro delle ombre. Il finale dello spettacolo però rimane sospeso, e nello spettatore resta il forte desiderio di scoprire cosa accadrà nella prossima puntata.

Marzio Badalì


(visto il 24 giugno 2017)

 

 

“Fregio” di Virgilio Sieni, il dono di essere umani

Quando il contatto con l’altro diventa dono, si va ben oltre la misericordia, e l’incontro tra esseri umani si trasforma in un’opera d’arte necessaria. Virgilio Sieni questa volta ci parla dell’importanza della condivisione di uno spazio comune, delle nostre emozioni e fragilità, di noi. Fregio, percorso attraverso 4 azioni coreografiche in 3 luoghi interpretate da cittadini e danzatori, fa parte del progetto “Cantieri del gesto_Pistoia 2017”, nato in occasione di Pistoia Capitale Italiana della Cultura e del Pistoia Teatro Festival, che ha previsto inoltre la performance Cammino Popolare, a cui tutti i cittadini sono stati invitati a prendere parte. Sieni si lascia ispirare dalle Sette opere di Misericordia raffigurate nel cinquecentesco Fregio robbiano dello Spedale del Ceppo, ma articola le sue coreografie all’interno di altri luoghi simbolo della città, spazi con una storia riscoperti da occhi nuovi, che ci parlano attraverso il contatto e la vicinanza delle persone che li abitano, senza distinzione di genere, età, provenienza.

ph Michelle Davis

Il percorso inizia nella settecentesca Biblioteca Fabroniana, dove cinque donne over 60 si mettono in gioco per scoprire, e quindi mostrarci, un modo diverso di utilizzare il corpo. Con sonorità che ricordano campane tibetane, illuminate dalla luce proveniente dall’ampia vetrata della sala antistante la biblioteca, richiamano, grazie a un lenzuolo bianco accartocciato che evoca il marmo delle statue, i due gruppi scultorei di Agostino Cornacchini, La Natività e La Deposizione dalla croce, posizionati ai lati della porta che conduce alla stanza dei libri. La loro evoluzione è lenta, pacata, meditativa, in perfetta sintonia con un corpo non più giovane. Questo è un viaggio a ritroso, poiché ad attenderci oltre quella porta ci sono ragazzine e bambine in grado di plasmare in silenzio figure plastiche e dinamiche. Reiterano movimenti, creando un continuum di variazioni e un’incessante proliferazione di figure e sostegni.

ph Michelle Davis

Quando è ora di proseguire si abbandona la biblioteca in favore di Palazzo Fabroni, dalle origini trecentesche e ora centro di arti visive contemporanee, dove in una stanza espositiva dalla luce fioca troviamo schierate altre giovanissime ragazze che evocano la misericordia nell’abbandono e nell’incontro, il senso di una comunità che sorregge e sostiene. La danza allora diventa uno studio sulle modalità e i gradi di relazione con l’altro, le possibilità spaziali e relazionali di un corpo in un luogo che non è teatrale in senso canonico ma che diventa scena e protagonista al tempo stesso. Un corpo dapprima singolo, poi reso molteplice dalla mescolanza con gli altri, fino a trasformarsi in comunità.

ph Michelle Davis

L’ultima tappa di questo viaggio, che prevede lo spostamento del pubblico tra le vie della città, è sulla Terrazza Grandonio del settecentesco Palazzo De’ Rossi, illuminata principalmente dalla luce del sole che tramonta su Pistoia. Il cielo si riempie di colori e diventa la scenografia di quest’ultimo quadro in cui, per la prima volta dall’inizio della rappresentazione, alle figure femminili si affiancano presenze maschili, accompagnate nella danza da suggestive dissonanze elettroniche eseguite dal vivo dalla chitarra di Roberto Cecchetto. Si crea dunque un affresco sulle qualità del corpo, ricercato attraverso il senso della fragilità, del frammento e dell’articolazione. Le mani sono in continuo contatto con i corpi degli altri, sostengono, sfiorano, si poggiano su una spalla o dietro la schiena, sussurrano “io ci sono”, in una danza in cui le braccia si intrecciano e le gambe vengono sorrette, spostate, direzionate; le teste accompagnate nella caduta. All’interno di questo mondo perfetto nessuno cade da solo, nessuno si alza da solo. C’è sempre una mano pronta ad aiutare, a risollevare il compagno caduto.

ph Michelle Davis

I danzatori hanno età diverse, corpi diversi – danza persino una donna incinta – vestono abiti semplici, leggeri, di colori differenti, che in parte richiamano quelli del Fregio di Giovanni della Robbia. Si incontrano, si sfiorano, si sorreggono, si supportano, si aiutano, si respirano ed entrano in contatto tra loro. È uno scambio reciproco, chi sostiene è a sua volta sostenuto. Virgilio Sieni dipinge un itinerario in cui tramite il gesto avviene uno scambio sociale, un dono, inteso come atto di generosità che restituisce allo spazio cittadino un ampio senso di apertura e condivisione. Gli interpreti costruiscono attraverso la memoria di gesti pittorici un’architettura umana che getta le fondamenta per la creazione e il rispetto di un luogo comune; la vicinanza e la tattilità sono alla base di questa struttura coreografica che incarna i principi di una vera democrazia e instaura così una relazione tra cittadino e bene comune. Il corpo diviene il tema per abitare il mondo attraverso la consapevolezza di sé e dell’altro, del luogo in cui si vive.
Tranne che nell’ultimo quadro, ampio, a campo lungo, il pubblico si trova sempre schierato in due falangi, una di fronte all’altra, e attraverso i performer sembra quasi di guardarsi allo specchio. La sensazione che ne deriva è di profonda incompletezza, e allora non basta più partecipare a un tale rito come spettatori passivi, ma nasce il desiderio di diventare parte attiva di questo percorso, di entrare anche noi in contatto con gli altri.

Marzio Badalì

(visto il 23 giugno 2017)

La rivoluzione è facile se sei cinico, disinvolto e incredibilmente fortunato

Il ritratto dei giovani Kepler-452 tra risate e Sgomento
Crisi esistenziale post-laurea vs realtà

 

«Tu, allora, che avresti fatto?» è l’interrogativo che resta frustrato come le ambizioni degli interpreti de La rivoluzione è facile se sai come farla e comuni a un’intera generazione, quella degli attuali venti/trentenni.

Proprio il trentacinquenne Quit the doner, pseudonimo di Daniele Rielli, poteva descrivere e tratteggiare le storie dei due protagonisti con il linguaggio e i riferimenti socio-culturali dei coetanei, i cui disattesi sogni carrieristici e professionali sono messi in scena dalla compagnia Kepler-452 e interpretati da Nicola Borghesi e Paola Aiello.

Lui, aspirante scrittore, in cerca della pubblicazione del suo romanzo L’inderogabile altitudine della rivoluzione trova la concorrenza di Sgomento, opera ultima di Paterno Rondone, che è tutto e il contrario di tutto. Lei, sceneggiatrice in erba, si scontra con il mondo delle raccomandazioni e dell’anzianità, in cui emergere dall’anonimo sostrato bolognese è assai difficile.

Foto di Michelle Davis

Sotto la regia di Nicola Borghesi, il racconto si articola in piccoli quadri di narrazione giustapposti e alternati tra i due attori, in mezzo ai quali interviene Lodo Guenzi, nei panni di un declamatore delle pagine inedite, di editor cinico e rispondente alle leggi di mercato e di un direttore teatrale disincantato. Sulle musiche de Lo Stato Sociale, non dal vivo al contrario di quanto l’allestimento da concerto può far pensare, si snodano in una sequenza frammentata e rapsodica i fallimenti e le speranze di successo quotidianamente frustrati, comuni a tutti i venti trenta (nome del Festival a cui Nicola Borghesi ha dato vita nel 2014), ovvero alla generazione new cultural che tra una «birretta sul Pratello» e un altro episodio di Breaking bad insegue tra attacchi di panico e terapie del lunedì il proprio sogno di sfondare, di brillare, di distinguersi dalla massa.

La voglia di emergere è trasmessa a 360° dalla gestualità che subentra a supporto della parola e delle emozioni, infatti gli attori si muovono, corrono, si siedono e saltano sopra e intorno alle casse di plastica gialla che popolano il palco, adattandosi ai contesti formali e informali nei racconti che si susseguono.

Ma questi «bambini speciali» cresciuti a sogni e competenze, come in un raptus di sincerità urla l’editor milanese, giocoforza cozzano con una realtà atrocemente cinica, in cui disincanto artistico e politiche economiche portano alla progressiva accettazione del conformismo e alla temuta scesa a compromessi pur di fare qualcosa, rappresentata dal posto all’anagrafe comunale in cui lavora il babbo. I due protagonisti, infatti, non hanno il manuale d’istruzioni per fare una rivoluzione, per sconvolgere drasticamente i rapporti di forza che li soggiogano, ma, in fondo, “rivoluzione” altro non indica che un giro, un viaggio circolare alla fine del quale si torna al punto di partenza.

Kepler-452 fa un ritratto schietto e sincero della propria generazione, parlando a questa con i codici linguistici e comportamentali che la contraddistinguono. In ciò probabilmente si potrebbe ravvisare il limite più grande dello spettacolo, ovvero potrebbero non essere del tutto accessibili i suoi contenuti a coloro che non si rispecchiano in quel target d’età, ormai assuefatti ad altre logiche e obbedienti a diverse priorità. Ma chi d’altra parte vive anche marginalmente questo spaccato sociale, può partecipare emotivamente alle vicende, nei suoi tratti espressivi, talvolta pittoreschi.

A chi di quella generazione invece fa parte la narrazione non lascia nuove esperienze, perlopiù l’autoconsolazione di aver condiviso ciascuno nella propria vita in misura più o meno variabile l’ansia sociale dell’ingresso nel mondo del lavoro, da cui scaturisce in risate amare il “mezzo gaudio” proverbiale. Non manca, però, l’autocritica, scioccante e urlata dall’editor milanese Passalacqua, che sbatte in faccia all’aspirante scrittore tutte le sue velleità in un lungo monologo pieno di quella onestà, che per convenzione sociale viene spesso taciuta e dissimulata.

L’ingenua ambizione generazionale e l’autocommiserazione messe in scena danno allo spettacolo una patina di autoconsolazione, a tratti apologetica, con un sotteso invito allo sconvolgimento della propria vita rappresentato dallo strenuo esercizio di convincimento che il posto fisso non sia un compromesso ma un’opportunità, mentre diventano un’iniezione di autostima per i venti/trentenni che nonostante tutto ce l’hanno fatta.

a cura di Glenda Giacomelli

VI RACCONTO “GRAN GLASSÉ”: GLI OMINI ALLA FORTEZZA SANTA BARBARA.

Cronaca di una serata alla Fortezza Santa Barbara. Gran Glassé: convincente mix tra la comicità de Gli Omini e i frizzanti momenti musicali del complesso eXtraLiscio. 

Nell’aura cinquecentesca della Fortezza Santa Barbara, su un semplice palco con delle gigantesche mutande sullo sfondo, Gli Omini si esibiscono accompagnati dal gruppo musicale eXtraLiscio. Gran Glassé, un misto di varieté, Gran Galà e “un fortuito ritrovamento di quaranta scatole di marron glassé” – per usare le parole della compagnia stessa. La voce di un narratore conduce lo spettacolo presentando ora i musicisti e i cantanti, ora i tre attori che, rispettivamente davanti a tre leggii, si immedesimano in molteplici personaggi. Gli attori portano sulla scena situazioni, momenti, attimi rubati nei loro tour attraverso l’Italia, creando una vera e propria summa delle esperienze cui hanno lavorato negli ultimi dieci anni. I nostri tre protagonisti indossano le vesti di individui desunti dalla realtà quotidiana, spesso da quella più realistica e bizzarra, donde emergono veri tipi umani, immersi in variopinte e comiche esperienze. Le scenette sono scandite in più sezioni a tema, in ognuna delle quali viene affrontata una specifica situazione o condizione umana: come tre uomini si comportano alla stazione, come giudicano il proprio lavoro, come vivono una vita di coppia; scenette nelle quali ogni spettatore rivede inevitabilmente se stesso, i propri famigliari e coetanei, insomma, la realtà che ogni giorno tocca con mano. E i tipi sulla scena rivelano al proprio pubblico una verità da loro ormai accertata, colorata e arricchita da una leggera vis comica, che si ritrova soprattutto nel loro espressionistico intercalare, nelle loro bizzarre esperienze, talvolta in qualche termine triviale scagliato tra una parola e l’altra.

 

Ph. Michelle Davis

Accomuna, però, tutte quante le scenette il tono piuttosto rassegnato alle verità di cui i personaggi hanno preso atto: la vecchia zitella, il lavoratore sconsolato, il giovane poetastro, l’amato respinto, non hanno niente di titanico nei confronti di una realtà screpolata, bensì confessano palesemente la loro attuale condizione come fissa e immutabile, senza prospettiva alcuna di cambiamento. Le loro avventure restano immobili e cristallizzate, suscitano una fuggevole risata, ma permettono al pubblico un’attenta riflessione. Chi non vorrebbe barattare il proprio lavoro con qualsiasi altra cosa? Chi non è compreso e ascoltato dai propri amici? Chi non è mai stato accusato dalla propria amata di avere un carattere impossibile? Realtà percorse da problemi del quotidiano che la vita apparecchia bene o male a tutti, vengono calate in una dimensione di spettacolo di varietà, affrontate dalla compagnia senza sottolinearne il disagio, anzi esiliando del tutto dalla scena le note dolorose, per lasciare spazio ai frangenti umoristici evidenziandone le circostanze più buffe. Questa la grande peculiarità de Gli Omini: far brillare di luce comica le situazioni problematiche in cui l’uomo viene sballottato durante il corso della propria esistenza, far emergere quanto può esserci di faceto nel serio, riuscire a trovare il riso anche nell’amarezza della routine. I tipi umani che esplodono sulla scena siamo proprio noi: intrappolati nella difficoltosa tela delle relazioni sociali, gettati in un mondo complesso e mutevole, imbrigliati nell’arduo compito di scalare la montagna che occupa il nostro io interiore. Forma recitativa prediletta dalla compagnia è, per l’appunto, il monologo, attraverso cui prende forma la persona che sta narrando la propria vicenda insieme al suo punto di vista; in alcune sezioni, come ne “la coppia”, è invece preferita la forma del dialogo, ovviamente intessuto fra i due coniugi, nell’ordine di mostrare il loro rapporto spesso critico, conflittuale e provocatorio. La vera forza comica si sprigiona nella mimesi linguistica dei dialetti italiani, per mezzo dei quali gli attori cuciono i discorsi con grande perizia: dominano la scena il fiorentino sboccato, il romano col suo lessico gastronomico, la pistoiese accusatrice, il milanese logorroico, grazie ai quali il vero protagonista è l’idioma linguistico. Tuttavia, pur restando fissi davanti ai loro leggii, i tre attori riescono ad animare la scena grazie al loro frenetico gesticolare, ai movimenti congiunti alle parole, alla vivace esasperazione di ciascun gergo.

 

Ph. Michelle Davis

Ma ecco che, accanto a tali siparietti, si attiva la seconda grande componente del Grand Glassé, ovvero la musica degli eXtraLiscio, che Gli Omini hanno incontrato il giorno stesso dello spettacolo, sperimentando, per la prima volta e in diretta, una collaborazione con altri artisti. Anche le canzoni degli eXtraLiscio raccontano frammenti di vita, spaziando nel repertorio del liscio italiano e legandosi strettamente alle parti recitate: con un Cha cha cha d’amor e un’atmosfera da balera, i loro pezzi si inseriscono fra una scenetta e l’altra senza soluzione di continuità, creando uno spettacolo varieté commisto di recitato e musicato, due elementi che mai risultano l’uno avulso dall’altro. Ma qui i protagonisti della musica sono ora un coinvolgente cantante di liscio, ora un elegante gentiluomo con la sua sensuale partner in scena, i quali richiamano una sofisticata serata da Gran Galà. Recitazione e musica, serio e comico, spensieratezza e malinconia, realtà e finzione, questi sono gli ingredienti del Gran Glassé che, nel loro intento di restituire il grande affresco del brulichio della vita quotidiana, riescono a forgiare tipi umani comici, umoristici, ma mai banali, sempre costretti ad agire in situazioni che accomunano, nel bene o nel male, ciascuno di noi.

 

Mirco Innocenti

“A FURY TALE”: C’ERA UNA VOLTA LA RABBIA

Per raccontare una “storia di rabbia” forse è necessario confondere la realtà con il teatro, portare in scena situazioni ironiche e a volte paradossali, esprimersi non solo attraverso la danza ma anche con un linguaggio che unisce il corpo alle parole. Il progetto di Cristiana Morganti in A fury tale (visto il 21 giugno al Teatro Manzoni di Pistoia in occasione del Pistoia Teatro Festival) è proprio raccontare una storia di rabbia e di rivalità, osservate da diversi punti di vista e in diversi contesti, confondendo sin dall’inizio la realtà con la finzione e interpretando con ironia ogni gesto, ogni scena, facendo ridere il pubblico per l’assurdità di certe situazioni ma allo stesso tempo spingendolo ad ammettere la naturalezza di quei paradossi.

Le interpreti sono due – pelle chiara, capelli rossi come la rabbia, longilinee: Breanna O’Mara e Anna Wehsarg; la coreografa decide di presentarle insieme a una terza danzatrice che avrebbe sostituito la Wehsarg durante la sua gravidanza, ma all’improvviso le quattro cadono a terra, la scena si fa buia, una musica assordante la invade, lo sfondo bianco si tinge come d’inchiostro scuro. Da quel momento inizia la storia delle due ballerine, in forte rivalità l’una con l’altra – entrambe hanno i propri sogni, progetti molto ambiziosi per il futuro: la più giovane, facendo intervenire uno spettatore che le porge una lavagnetta ed un gesso per poter spiegare con qualche segno confuso le proprie aspirazioni, sogna di aprire una scuola di danza e di avere una splendida famiglia; l’altra, aiutata da uno schema ordinato proiettato sullo sfondo della scena, spera in una buona carriera artistica, in una famiglia e nella salute, strettamente legata alla danza e allo yoga che costituiscono il primo punto trattato. Dallo scontro scaturisce la rabbia, espressa in tutte le sue forme e nei contesti più disparati, con diversi stili di danza accompagnati da musiche rock come da Bach, arricchiti di tanto in tanto da qualche frase in italiano, inglese, francese o tedesco. Le occasioni per confondere realtà e teatro sono molte, dal momento in cui la regista prende la parola per tradurre ciò che dicono le interpreti a quello in cui decide di salire sul palco per calmare la profonda crisi di rabbia e scoraggiamento di una delle due.

La narrazione si conclude riprendendo la scena iniziale: le due danzatrici, rialzatesi da terra, iniziano a ballare ma l’errore di una provoca la rabbia dell’altra, che la corregge, e pian piano il diverbio diventa furia. Nel finale, però, il dialogo tra le due è muto ed il loro scontro non è più una scena quotidiana, ma una pura azione coreografica.

Foto di Claudia Kempf

La scenografia spoglia si arricchisce via via di oggetti portati in scena dalle ballerine e da immagini proiettate sullo sfondo – animali dai colori innaturali, donne che saltano, cerchi di luce eclittici; l’illuminazione, mai banale, sfrutta anche fari posti lateralmente alla scena per illuminare da diversi punti di vista le due ragazze. Proprio le luci, in complicità con il suono, spesso sfruttando l’effetto stroboscopico, permettono di creare i momenti più espressivi e ironici: in una luce rossa che pervade tutto il palco, sulla base di un brano di musica metal, ad esempio, la O’Mara sfoga la propria furia coi capelli al vento di un asciugacapelli elettrico.

La varietà dei costumi permette non solo di scandire i diversi momenti del racconto, ma anche di accentuare l’assenza di separazione tra realtà e finzione, con cambi in scena al ritmo della musica, con precisi movimenti coreografici.

L’indagine condotta dalla Morganti è fortemente contestualizzata, ma allo stesso tempo esprime la realtà di chiunque voglia riconoscervisi, e la sua attenzione alle due facce dello spettacolo – l’interno e l’esterno – permette un’analisi più attenta e ironica, «un tentativo di mettersi in gioco per preservare attimi di verità». “Mettersi in gioco” è allo stesso tempo “prendersi gioco”: di loro stesse, con autoironia, grazie all’azione iniziale di gettarsi a terra ed interrompere repentinamente quella presentazione che, probabilmente, al pubblico non interessa nemmeno; ma anche del pubblico, incredulo ogni volta che scopre che la realtà che sta vivendo è, di fatto, spettacolo.

Se è difficile parlare di rabbia – qualcosa di così astratto e generico – in uno spettacolo teatrale, la Morganti ci riesce e nella maniera più efficace: rendendo il pubblico partecipe di questo gioco che non esclude nessuno.

Lapo Ferri

Il Vangelo secondo Judah, dialogo tra misericordia e tradimento

Se Giuda non fosse stato un traditore, o non avesse voluto esserlo? Come sarebbe cambiata la storia degli ultimi millenni? E, soprattutto, se non avesse voluto, perché ha tradito Gesù? Quando l’ATP ha commissionato a Stefano Massini uno spettacolo, la richiesta era di creare un testo che avesse a che fare con le Sette Opere di Misericordia del Fregio robbiano. Ed ecco, dunque, la rappresentazione di un Giuda che è il più misericordioso degli Apostoli, che non vuole tradire ma è destinato a farlo, le cui scelte sono sottomesse a un disegno da cui non può fuggire.
È proprio il Fregio a dialogare, per tutta la durata de Il Vangelo secondo Judah (andato in scena il 18 giugno scorso, regia di Claudia Sorace, con Ugo Pagliai e Luigi Lo Cascio), con il testo di Stefano Massini e con le musiche di Enrico Fink, seguendo Giuda nel suo drammatico racconto: la nascita, già segnata dalla consapevolezza del suo destino, il battesimo nel Giordano, l’incontro con Gesù, la fuga dalla sua sorte che, però, inesorabilmente fa il proprio corso. Così Giuda tenta di scappare da se stesso, ma si ritrova a dialogare con Gesù, nato nel medesimo istante, e a morire insieme a lui, dopo averlo tradito e venduto.

ph Michelle Davis

 

Lo spazio occupato dai due attori è spoglio: già di per sé scenografico, lo Spedale del Ceppo è decorato solo dal Fregio robbiano, illuminato con una semplice luce bianca, e di tanto in tanto le campate vengono colorate da luci più o meno intense che seguono l’andamento della lettura e richiamano le immagini evocate dal testo. La piccola orchestra, composta dai docenti della Scuola Mabellini di Pistoia, è disposta lungo il confine di piazza Giovanni XXIII, ed esegue musiche che, a volte in completa sintonia e a volte in contrasto col testo, creano l’atmosfera in cui ambientare le scene evangeliche raccontate, seguendo al contempo le riflessioni intime del protagonista.
I due attori hanno fornito interpretazioni molto differenti – quella di Lo Cascio intima e musicale, quella di Pagliai più scandita ma comunque vivace – rendendo perfettamente l’idea della dualità che caratterizza Giuda: quella del traditore misericordioso, di colui che condanna Gesù senza volerlo, che fugge da sé stesso ma non può fare a meno di sentirsi partecipe del proprio destino. Ma la contraddizione è addirittura maggiore: Giuda è allo stesso tempo libero ed inserito in un progetto divino, e la sua unica vera libertà è quella di accettare il progetto che gli è stato destinato.
La vita di Giuda non è caratterizzata dalla crescita: consapevole della propria sorte già dal momento prima di nascere, «nell’età in cui tutti si credono eterni, io scoprii di non esserlo» scandisce Pagliai raccontando del battesimo del protagonista. La sua storia non è segnata da un rapporto con Dio, ma da una relazione con se stesso, con la propria duplicità, dando per scontato e quasi mai mettendo in dubbio il destino assegnatogli.
La domanda che attanaglia Giuda – più che una domanda, appunto, è una constatazione – dovrebbe interrogare anche il pubblico, rievocando l’idea che già gli antichi proponevano del Fato: siamo veramente liberi? Non si tratta di una libertà sancita dalla legge o da una carta costituzionale, ma di qualcosa di più profondo e insito nella nostra natura: siamo dotati di libero arbitrio o siamo sottomessi a una legge superiore, a un disegno prestabilito?
Il testo di Massini non fornisce una risposta: si potrebbe pensare che una predestinazione insormontabile sia stata assegnata solo a Giuda, partecipe del progetto divino di salvezza, e non a tutti gli uomini. Più che altro, ci porta a rivalutare la Storia e a mettere in dubbio i comportamenti dei suoi personaggi – forse uomini che hanno seguito un progetto prestabilito e non hanno agito di propria sponte, con una effettiva libertà.

ph Michelle Davis

Ciò che si avvicina più alla realtà dello spettatore, di ognuno di noi, non è tanto la riflessione su Giuda, quanto la riflessione di Giuda: la pesantezza di sentirsi parte di un progetto, la difficoltà di una vita che non è semplice ricerca di uno scopo, ma realizzazione di un fine già deciso. «Per un uomo solo una cosa è peggiore di non avere un compito, ed è scoprire di averlo. Nel mio caso sapevo adesso di avere una strada, ma ignoravo quale. Tutto guardava a un altare futuro, a cui sarei giunto per farmi immolare. Ma ignoravo come, ignoravo quando. Per cui tutto, d’ora innanzi, sarebbe stato solo un aspettare». In questo Giuda non è diverso da tutti gli uomini, certi di avere uno scopo ma dubbiosi su quale esso sia, assorbiti dalla certezza e dimentichi che «la vita è un fatto, non un progetto».

Credo non abbia senso, però, estraneare eccessivamente il testo dalla sua vera natura: un apocrifo raccontato dallo stesso Giuda, che è l’unico protagonista e il vero cardine dell’interpretazione: non è più Gesù al centro del racconto evangelico, la salvezza degli uomini adesso è legata alla scelta e alla pseudo libertà del quarto figlio di Iscariota. Il lavoro svolto da Massini sui Vangeli non canonici è profondo e ha come scopo, d’altra parte, quello di reinterpretare la figura di Giuda e metterla in relazione con la misericordia: non tanto quella divina, quanto quella del protagonista stesso e, forse, anche quella del pubblico, mosso a compassione verso un personaggio da sempre additato come “traditore” per antonomasia.

Lapo Ferri

L’umanità allo specchio. Il Vangelo secondo Judah di Stefano Massini

«[…] io ho sempre detto, a me non interessa fare il testo di catechismo dove dici chi verrà dannato e chi verrà salvato, mi interessa se non altro porre dei problemi e delle domande su qual è il peccato. Se di peccato si può trattare.» Così diceva il drammaturgo Stefano Massini nel 2014, presentando l’acclamatissima Lehman Trilogy (premio Ubu 2015 e ultima grande regia di Luca Ronconi) al Piccolo di Milano. Dichiarazione che diventa quasi profetica parlando del Vangelo secondo Judah, ultimo lavoro di Massini, presentato in apertura del Pistoia Teatro Festival la sera di domenica 18 giugno, con la mise en espace di Claudia Sorace. Non uno spettacolo ma una lettura scenica – come la stessa regista ha precisato nell’intervista rilasciata ai ragazzi del laboratorio Giornalisti di confine – dove ad assumere centralità è soprattutto il testo. Testo che non necessitava, afferma sempre la Sorace, di sovrastrutture scenografiche o ricostruzioni storiche di alcun tipo; sono invece le musiche di Enrico Fink (grande sperimentatore della musica tradizionale ebraica) e la location scelta (Il loggiato dello Spedale del Ceppo in Piazza San Giovanni XXIII, sotto il celebre Fregio di Della Robbia che raffigura le Sette opere di Misericordia) gli unici elementi esterni al racconto di un Giuda mai così esplicitamente fragile e tormentato, con la doppia interpretazione di Ugo Pagliai e Luigi Lo Cascio.

Ph Michelle Davis

Non serve essere biblisti o archeologi per cogliere quanto il lavoro di Massini sia profondamente intriso di religiosità e cultura ebraica; intervistato da Goffredo Fofi nel pomeriggio, poche ore prima della lettura, è stato lui stesso a raccontare nel dettaglio l’avvicinamento della sua famiglia alla comunità sefardita di Firenze, a contatto con la quale Massini è cresciuto anagraficamente ed artisticamente, non nel segno di una conversione bensì di una particolarissima contaminazione umana e culturale. Il suo Vangelo secondo Judah, lungi dall’essere una riscrittura del corrispondente vangelo apocrifo, è un’opera del tutto autonoma, comunque inscindibile dall’universo religioso di riferimento grazie alla struttura – nessuna divisione in atti, ma brevi paragrafi in successione come nella narrazione evangelica, circa 120 – e alla ricchezza di immagini, parole, suggestioni direttamente riconducibili ai testi sacri. È in effetti un silenzio quasi religioso quello creatosi in apertura, un raccoglimento come di fronte ad una sacra rappresentazione. Una voce salmodiante, femminile, si sovrappone a percussioni di sapore orientale mentre iniziamo a intravedere i due attori sulla scena ancora buia.

Nella parte sinistra del loggiato, mentre sfuma la musica, vediamo comparire Luigi Lo Cascio; in quella destra, più avanti, comparirà Ugo Pagliai. La lettura li vede alternarsi poche volte, con interventi individuali molto lunghi. Entrambi, nella seconda parte, compiono un passo di avvicinamento verso l’altro spostandosi di una loggia rispettivamente a destra e a sinistra, senza mai giungere a incontrarsi o a scambiarsi di posto. L’idea di un dualismo manicheo ma complementare tra i due – la prima cosa che viene in mente, la più scontata se il tema di fondo è la necessità del Male – non trova alcun riscontro durante la lettura. In effetti tra i due Giuda sulla scena non c’è contrasto, almeno non sul piano strettamente drammaturgico. Sembra invece configurarsi una sorta di rapporto osmotico, uno scambio di flussi agiti da entrambi nel corso della lettura, seppure con un dosaggio diverso a seconda della scena. Sia Lo Cascio che Pagliai danno voce, a turno, tanto al Judah fragile che a quello cinico, tanto al Judah avventato quanto a quello maturo. La scrittura di Massini, per niente estranea al tema del doppio, non cade mai nella banalità di consegnarci un Judah criminalmente bipolare, con una metà chiara e una scura. Lo scarto di anagrafe e di tradizione fra i due attori, le loro differenze timbriche e di registro, si traducono sorprendentemente in due voci diverse che raccontano la stessa storia. Il 49enne Lo Cascio parte con una recitazione classica e impostata per poi scomporla costantemente, a tratti deformandola in direzione un po’ beniana e cantilenante, a tratti “rappando” sulla musica; l’ottantenne Pagliai mantiene una narrazione elegante e dolcemente monotona, con poche eccezioni, per tutta la durata della lettura. Le musiche di Fink, dagli arrangiamenti curatissimi e lineari, contribuiscono ad unificare ed armonizzare l’insieme. Il Fregio Robbiano, valore aggiunto e parte integrante dello spazio scenico, brilla sopra il loggiato durante tutta la lettura, incastonato da un’illuminazione minimale.

ph Davis

La lettura non esamina se non in minima parte il tradimento di Judah, il suicidio, la crocefissione di Cristo: tutto questo rimane implicito, perché fa parte di una storia che già sappiamo. Assistiamo invece al racconto impossibile e appassionante della vita interiore di Judah, intrecciata a quella di Gesù (nella lettura Yehoshùa, come da tradizione ebraica) fin dagli abissi del nulla precedente al grembo materno. I due nascono insieme, anzi è l’anima di Yehoshùa a convincere quella di Judah, fin dall’inizio ostinata e contraria, a venire alla luce; come anche più avanti, nella parte finale, sarà Yehoshùa ad accompagnare Judah all’impiccagione, quasi tenendolo per mano – i due muoiono insieme così com’erano nati, entrambi pendendo da un legno. Tra i due momenti, a sostanziare l’opera è una prolungata, tormentatissima adolescenza, in cui i due compiono il difficile cammino – Yehoshùa con vera convinzione, Judah esitando fino all’ultimo – di eseguire un disegno già scritto e inevitabile. Se Judah si è fatto ladro, sembra dirci l’autore, è per reazione all’essere stato derubato della propria vita, della possibilità di una vita diversa.

Gli agganci con i temi del “doppio” e degli specchi di borgesiana memoria si sprecano: Lo Cascio e Pagliai si alternano dando ad almeno tre Judah, con uno schema che rievoca i fantasmi del Canto di Natale di Dickens: il Judah futuro forse un demonio, o il demonio – compare al Judah del passato, apparentemente per avvertirlo che può ancora cambiare strada, emanciparsi da una trama già scritta per lui. In realtà per tarpargli le ali: una ferita, identica sul braccio dei due ma già cicatrizzata nel futuro, li unisce lungo un percorso ineluttabile. Allora è il Judah del presente che si sdoppia, si guarda dall’esterno, si auto-rappresenta illudendosi (e illudendo lo spettatore) di potersi discostare dal suo compito. Il terzo Judah non agisce davvero nel dramma, è per l’appunto il Judah che conosciamo, con il suo copione classico (i trenta denari, il bacio, l’impiccagione), un personaggio che sembra inventato e a cui il Judah del presente davvero non crede di potersi conformare fino in fondo.

ph MIchelle Davis

Il racconto ci porta buffamente anche a conoscere tre diversi Yehoshùa – nome comune all’epoca – poiché prima di imbattersi nel Gesù storico Judah ne incontrerà altri due, cadendo in una serie di fraintendimenti ed equivoci, alternando brevi momenti di euforia e fiducia per poi ripiombare nella consapevolezza di ciò che è inevitabile. Consapevolezza ardua da accettare anche da parte dello stesso Yehoshùa, intristito dal peso che grava su Judah, e se possibile ancora più invischiato nella trama: se Judah può permettersi la rabbia e il rifiuto, Yehoshùa può al massimo offrirgli il proprio dispiacere, la propria misericordia, il proprio aiuto: come si fa con un fratello minore, per aiutarlo a crescere.

Ma il vero specchio del Vangelo di Massini è l’umanità – cioè noi – nel suo cammino di scoperta e accettazione del dolore; un dolore per cui non sembra esistere cura (un paradosso in un dramma rappresentato nel loggiato di un antico ospedale) né salvezza (un paradosso in un dramma ispirato ad un Vangelo, per quanto apocrifo). Massini, rielaborando il tema della parabola della vigna («gli ultimi saranno i primi»), sintetizza l’umanità in tre categorie: i destinati a tradire come Judah, i destinati a essere traditi come Yehoshùa, e poi, per l’appunto, gli ultimi, coloro che rimangono fuori dai percorsi della Storia e del destino, gli inutili, i dimenticati. Beati saranno questi ultimi, ci dice Il Vangelo secondo Judah conducendoci ad un finale dolce e amarissimo al tempo stesso, poiché non dovranno affrontare il peso della scelta, poiché altri sceglieranno per loro.

La riscrittura del testo biblico, o qualsiasi opera che vi si ispiri, porta sempre con sé tutto l’immaginario potente, epico dell’incontro/scontro tra Bene e Male; a quest’immaginario attingono le arti più diverse, tendendo però ad appiattirsi su modalità di rappresentazione e di linguaggio autoreferenziali ed in genere poco pervasive, mirando ad intrattenere il pubblico (le grandi saghe cinematografiche e televisive da Star Wars a Lost a Harry Potter) o a indottrinarlo sfruttandone la passività (la divulgazione frontale dell’ultimo Benigni, il generico “evento culturale”). Massini riesce ad evitare tutto questo, consegnandoci un’opera inimitabile, laica, innovativa, conturbante. Sarà interessante assistere a eventuali future produzioni che potranno raccontarcela fuori dal contesto del loggiato dello Spedale del Ceppo, location particolarissima e irripetibile davanti alla quale un pubblico di circa 500 persone, rapito e partecipe, ha seguito la lettura per tutte le due ore e mezzo di durata.

Alfredo Marasti