“A FURY TALE”: C’ERA UNA VOLTA LA RABBIA

Per raccontare una “storia di rabbia” forse è necessario confondere la realtà con il teatro, portare in scena situazioni ironiche e a volte paradossali, esprimersi non solo attraverso la danza ma anche con un linguaggio che unisce il corpo alle parole. Il progetto di Cristiana Morganti in A fury tale (visto il 21 giugno al Teatro Manzoni di Pistoia in occasione del Pistoia Teatro Festival) è proprio raccontare una storia di rabbia e di rivalità, osservate da diversi punti di vista e in diversi contesti, confondendo sin dall’inizio la realtà con la finzione e interpretando con ironia ogni gesto, ogni scena, facendo ridere il pubblico per l’assurdità di certe situazioni ma allo stesso tempo spingendolo ad ammettere la naturalezza di quei paradossi.

Le interpreti sono due – pelle chiara, capelli rossi come la rabbia, longilinee: Breanna O’Mara e Anna Wehsarg; la coreografa decide di presentarle insieme a una terza danzatrice che avrebbe sostituito la Wehsarg durante la sua gravidanza, ma all’improvviso le quattro cadono a terra, la scena si fa buia, una musica assordante la invade, lo sfondo bianco si tinge come d’inchiostro scuro. Da quel momento inizia la storia delle due ballerine, in forte rivalità l’una con l’altra – entrambe hanno i propri sogni, progetti molto ambiziosi per il futuro: la più giovane, facendo intervenire uno spettatore che le porge una lavagnetta ed un gesso per poter spiegare con qualche segno confuso le proprie aspirazioni, sogna di aprire una scuola di danza e di avere una splendida famiglia; l’altra, aiutata da uno schema ordinato proiettato sullo sfondo della scena, spera in una buona carriera artistica, in una famiglia e nella salute, strettamente legata alla danza e allo yoga che costituiscono il primo punto trattato. Dallo scontro scaturisce la rabbia, espressa in tutte le sue forme e nei contesti più disparati, con diversi stili di danza accompagnati da musiche rock come da Bach, arricchiti di tanto in tanto da qualche frase in italiano, inglese, francese o tedesco. Le occasioni per confondere realtà e teatro sono molte, dal momento in cui la regista prende la parola per tradurre ciò che dicono le interpreti a quello in cui decide di salire sul palco per calmare la profonda crisi di rabbia e scoraggiamento di una delle due.

La narrazione si conclude riprendendo la scena iniziale: le due danzatrici, rialzatesi da terra, iniziano a ballare ma l’errore di una provoca la rabbia dell’altra, che la corregge, e pian piano il diverbio diventa furia. Nel finale, però, il dialogo tra le due è muto ed il loro scontro non è più una scena quotidiana, ma una pura azione coreografica.

Foto di Claudia Kempf

La scenografia spoglia si arricchisce via via di oggetti portati in scena dalle ballerine e da immagini proiettate sullo sfondo – animali dai colori innaturali, donne che saltano, cerchi di luce eclittici; l’illuminazione, mai banale, sfrutta anche fari posti lateralmente alla scena per illuminare da diversi punti di vista le due ragazze. Proprio le luci, in complicità con il suono, spesso sfruttando l’effetto stroboscopico, permettono di creare i momenti più espressivi e ironici: in una luce rossa che pervade tutto il palco, sulla base di un brano di musica metal, ad esempio, la O’Mara sfoga la propria furia coi capelli al vento di un asciugacapelli elettrico.

La varietà dei costumi permette non solo di scandire i diversi momenti del racconto, ma anche di accentuare l’assenza di separazione tra realtà e finzione, con cambi in scena al ritmo della musica, con precisi movimenti coreografici.

L’indagine condotta dalla Morganti è fortemente contestualizzata, ma allo stesso tempo esprime la realtà di chiunque voglia riconoscervisi, e la sua attenzione alle due facce dello spettacolo – l’interno e l’esterno – permette un’analisi più attenta e ironica, «un tentativo di mettersi in gioco per preservare attimi di verità». “Mettersi in gioco” è allo stesso tempo “prendersi gioco”: di loro stesse, con autoironia, grazie all’azione iniziale di gettarsi a terra ed interrompere repentinamente quella presentazione che, probabilmente, al pubblico non interessa nemmeno; ma anche del pubblico, incredulo ogni volta che scopre che la realtà che sta vivendo è, di fatto, spettacolo.

Se è difficile parlare di rabbia – qualcosa di così astratto e generico – in uno spettacolo teatrale, la Morganti ci riesce e nella maniera più efficace: rendendo il pubblico partecipe di questo gioco che non esclude nessuno.

Lapo Ferri