Gli indiani di Ascanio Celestini

ph Michelle Davis

Che fine hanno fatto gli indiani Pueblo è uno studio di Ascanio Celestini visto al Pistoia Teatro Festival per la seconda parte di una visione tripartita: Laika, Pueblo e I Draghi. Questi i tre titoli che comporranno la trilogia, tre scorci sugli esclusi, dei quali «normalmente parliamo solo quando succede qualcosa di grave […] è come se non vivessero neanche nella Storia degli Uomini», come ci racconta lo stesso autore da noi intervistato. Il palco montato all’interno della Fortezza Santa Barbara di Pistoia è occupato da due sedie e da due tavoli: da quello di sinistra escono note, da quello di destra parole; le parole degli e sugli esclusi, gli alienati dalla Città moderna, i relegati nella periferia urbana e in quella sociale. Il tutto immerso in una densa caligine opprimente, che, soffocando la distanza emotiva fra noi e loro, ci collega al moto patetico di queste storie verosimili del presente ostracizzante.

Il filo rosso dello spettacolo è il luogo, la compresenza spaziale dei narrati ci consegna l’eterogeneo corpus di queste emozionali vite trascorse sul confine fra “il limite del buongusto” e “la verità del presente che non dà scampo”. Violetta, Domenica, Said, un padre e uno zingaro sono i personaggi che prendono vita grazie alle incisive musiche di Gianluca Casadei e alla commovente eloquenza di Ascanio Celestini. La gentilezza nel lavoro attoriale è toccante, i pochi gesti del narrante si stagliano immensi nella visione spettatoriale, la dizione marcata e geograficamente flessa ci consegna un atmosfera totalizzante e il tutto ci fa letteralmente respirare i luoghi e le sensazioni dei raccontati.

Violetta lavora come cassiera in un grande magazzino, porta avanti la sua mansione con cruenta gentilezza e profondo rispetto per sé e gli altri: è una regina quando inforca il trono di fronte al nastro, quando i sudditi le consegnano la merce che lei, generosamente, struscia e concede… il latte, il pane, gli insaccati, i soldi sono solo doni che le vengono porti e che lei elargisce regalmente accompagnandoli con «grazie, arrivederci». Ma fuori dall’ambiente protetto, dal crogiuolo di anime che si delineerà con il prosieguo del testo, la sua vita è monca, priva di legami se non quello con il padre defunto e quello con Domenica. Una donna che proprio in quel grande magazzino aveva trovato rifugio; la sua America è stato il gabbiotto della guardia notturna, nel quale, in seguito ad una vita segnata dall’iniziazione paterna al borseggio e continuata con angherie, silenzi e solitudine, la giovane ragazza rom aveva trovato una sorta di quiete, la sua sorta di quiete o comunque una prospettiva accettabile.

Domenica inizia a svolgere piccoli lavoretti per il grande magazzino, quasi come per guadagnarsi quel posto riparato e quella merce in scadenza con la quale riesce a sostentarsi senza chiedere l’elemosina. Il suo piccolo angolo di Mondo lo aveva trovato e, in un certo senso, lo guadagnava ogni giorno, lo sudava. Con questi piccoli gesti di generosità di chi le sta intorno si era ripresa una sua dignità, un rispetto verso sé stessa. Attraverso di lei si intrecciano altri due rapporti e altrettanti personaggi: Said, lavorante come facchino nel magazzino dello stesso locale, e lo Zingaro. Con il primo ha una relazione amorosa e il loro rapporto si erge sulla bellezza delle piccole cose, dei piccoli traguardi – anche se mai raggiunti – e dell’eterno aspettarsi anche dopo l’espulsione di lui; con il secondo il rimando è al passato, alla propria giovinezza, all’apprendimento “dell’arte” e ai primi furti.

Con questi ultimi si tesse in modo analessico l’ultimo personaggio, il padre che infine chiuderà la visione circolarmente tornando su Domenica; l’uomo, ormai non più genitore racconta la storia del suo, purtroppo fu, figlio affetto da una malattia degenerativa che lo ha portato alla morte. «Il mio piccolo cuore di cane» dice il padre raccontando di quando il figlio, mangiando le more selvatiche, si cospargeva di un liquido dal color sanguigno. Nella mente dello spettatore qui si apre la questione di Poligraf Poligrafovič Pallinov, il personaggio praticamente teriomorfo del romanzo di Bulgakov: il suo essere borderline, specchio orribile di una società che, professando alti valori, si fa, in realtà, carnefice di sé stessa.

ph Michelle Davis

La chiusura del testo si apre con lo sguardo dell’uomo che giunge al marciapiede su cui giace l’anziana Domenica morta, dopo aver bevuto il tanto amato cappuccino decaffeinato, e sul quale si affaccia la porta di un bar sul cui ciglio sta il ragazzo rom che scherniva il figlio perché paraplegico. Alla fine si arriva in Paradiso: un luogo di tutti e per tutti.

Il testo potrebbe essere un elogio al rispetto verso se stessi e la tensione di fondo, che mi ha profondamente colpito e commosso, penso sia la ricerca non della felicità bensì dell’amore e del rispetto per sè e per gli altri – tema non innovativo, ma certamente da riproporre in una società che progredisce rapidamente verso traguardi inimmaginabili ma che involve forse ancora più celermente perdendo il terreno della socialità.

Edoardo Altamura