Non un convegno ma un «modo per condividere insieme delle inquietudini». Con queste parole il presidente Rodolfo Sacchettini ha introdotto la giornata di incontro Il nuovo teatro: ieri, oggi e domani, che si è svolta il 22 giugno presso il Piccolo Teatro Mauro Bolognini. Dopo una intensa mattinata in cui sono stati presentati e commentati alcuni materiali video inediti (fra gli altri frammenti da Le 120 giornate di Sodoma di Vasilicò, Crollo Nervoso dei Magazzini Criminali, Ensemble de La Gaia Scienza, introdotti da Fabrizio Crisafulli, Gabriele Rizza e Paolo Bologna), nel pomeriggio si sono alternate alcune voci legate alla critica teatrale odierna, in cerca di possibili punti di continuità e rottura con le domande e tensioni degli anni 70 teatrali. L’occasione sullo sfondo è la recente uscita del volume Cento storie sul filo della memoria, edito da Titivillus e curato da Enzo Gualtiero Bargiacchi e dallo stesso Sacchettini, oltre cento testimonianze raccolte in parte grazie a un convegno pistoiese organizzato nel 2014. In questo resoconto ci concentreremo sugli interventi del pomeriggio.
È Sacchettini ad aprire, come dicevamo, annotando che a volte per fare la storia non è sufficiente operare in senso genealogico; anche per questo si è scelto di invitare figure di testimoni di generazioni diverse, con una particolare attenzione ad alcune delle riviste nate negli ultimi dieci anni, accomunate dalla scelta di avere fondato dei “gruppi critici”.
L’apertura dei lavori vede un intervento di Ilaria Fabbri, dirigente al settore spettacolo della Regione Toscana e membro della Commissione Consultiva prosa al Mibact. Nel ricostruire il clima degli anni ’70 la Fabbri rimarca una tensione collettiva con punte di contrapposizione verso le istituzioni che oggi si è persa. Oggi si tende a blandire un consenso e non è raro trovare istituzioni prospetticamente più lungimiranti degli stessi operatori dello spettacolo. La Fabbri segnala il ruolo necessario delle istituzioni nel riconoscere il nuovo per dargli forza, invitando a evitare la trappola di chi vede solo la decadenza del teatro odierno. Il nuovo esiste, non si sa bene dove emerga, ma è ancora possibile incontrarlo. Invita infine a recuperare un afflato solidaristico anche tra artisti, afflato che dagli anni ’70 a oggi si è un po’ disperso nelle urgenze di sopravvivenza individuali.
Renato Palazzi, decano della critica teatrale italiana e penna del Sole 24 ore parte dicendo che dopo la caccia al nuovo degli anni passati la sensazione è che oggi l’ondata di novità si sia esaurita. Siamo di fronte a una normalizzazione, a volte dovuta a crisi creative che hanno portato anche all’estinzione di alcuni gruppi. Sono mancati o sono stati rarissimi i momenti di apprendimento intergenerazionale (per esempio la Celestina di Ronconi con Licia Lanera). Eppure va detto che il teatro degli anni zero ha creato un pubblico a sua immagine, mentre gli anni ’70 sembrano avere lasciato meno tracce. Quella degli anni zero è stata una generazione che ha dato una spallata definitiva alla rappresentazione, all’interpretazione attoriale strettamente intesa, dando forza a una nuova idea di soggettività attoriale. Dice Palazzi che si è parlato di post-drammatico, forse si deve parlare di post-teatrale, anche se i gruppi europei a suo dire sono «una ventina di anni avanti rispetto alla scena italiana» (si pensi a Rimini Protokoll, Agrupacion Senor Serrano, El Conde de Torrefiel, Berlin).
Andrea Nanni, critico, studioso, organizzatore riprende il dicorso tornando al primo dopoguerra e alla vicenda tutta italiana della nascita della regia. Parla di Luchino Visconti, in un sistema produttivo aristocratico che tuttavia ha posto certe basi ancora oggi valide. Le sue innovazioni, oltre che riflettersi sugli attori (per la prima volta invitati a imparare tutto il testo a memoria) impattavano ovviamente anche sui costi e sulle modalità di lavoro; la produzione poteva arrivare a durare anche 30 giorni. In quel periodo in cui si potevano ancora sovrapporre i piani del teatro dell’attore e del grande teatro d’autore. Secondo Nanni un problema tutto italiano è il doversi rapportare a invenzioni e accensioni innovative che poi vengono dimenticate, non si capitalizzano, come se si dovesse sempre ricominciare da zero. Dopo alcune “fiammate” le innovazioni si disperdono, spesso con le generazioni che le hanno prodotte. È vero che a volte sono le istituzioni a essere più innovative degli stessi operatori dello spettacolo, infatti alcuni segnali positivi istituzionali (anche come effetto del DM 1 luglio 2014) si sono visti, mentre sono gli artisti a essere in difficoltà, sono stati messi a dura prova da tutto quello che è accaduto sulla loro pelle negli anni passati. Speriamo che possano riprendere fiato, conclude Nanni.
Graziano Graziani, scrittore, critico, fra le altre cose voce di Radio Tre Rai inizia ricordando Simone Carella, regista sperimentale e grande agitatore culturale della Roma delle cantine. Pur riconoscendolo quale punto di riferimento, ritiene che sia la generazione Novanta il luogo dove guardare per capire il passaggio dalla temperie post drammatica al presente. Il concetto di “scrittura scenica” non ha espulso il testo dalla drammaturgia, ma l’ha ridotto a uno dei tanti elementi. L’effetto è riconsiderare la drammaturgia in senso più ampio: il ritmo del racconto, lo svelamento, il montaggio. Tutto questo si ricollega anche al postmoderno in letteratura. Continua definendo gli anni ’90 come l’ultimo momento in cui dominava una retorica basata sull’assunto che tutte le ricerche estetiche dovessero “superare” le precedenti. Una dialettica marxista hegeliana dove non c’è nulla di interessante a cantare ciò che è già stato cantato. Ora è diverso: uscendo da un secolo iconoclasta, la generazione attuale si pone il problema di cosa riassemblare. Non è chiaro agli artisti, non è chiaro al pubblico.
Lorenzo Donati, critico per Altre Velocità, pone al convegno il problema del luogo. «Dove il teatro non ha presa?» In questo momento storico dove le compagnie fanno fatica e sono inclini a dissolversi in poco tempo, la soluzione per Donati non è da cercare nelle relazioni produttive tradizionali, ma nel tentativo di dare forza a realtà auto-organizzate, come è accaduto con una certa regolarità negli anni ’90 e nei 2000. Fra gli esempi di «frammenti di contro-cultura» il critico cita l’esperienza di Teatro Sotterraneo e il loro tentativo di narrazione della precarietà nella rivista pdf “Sub”. Anche la parola “contro-cultura” sembra però ingabbiare le giovani realtà con concetti del passato, legati ad una stagione artistica lontana generazioni che fiorì in un contesto sociale-economico completamente diverso dal nostro. In quest’ottica Donati suggerisce di porre la massima attenzione ai quei luoghi, quegli spazi, dove possano nascere delle nuove tensioni che provano a rispondere alla domanda prima introdotta: «Dove il teatro oggi non ha presa?». Improbabile che la tensione degli anni ’70 oggi si riproponga, le scene contemporanee sono isole, e tendono ad esaurirsi in un attimo, eppure la questione qui accennata può creare dei frammenti di discorsi non allineati, controculturali appunto.
Francesca Serrazanetti, della rivista Stratagemmi Prospettive Teatrali discute di come lo spazio teatrale sia una delle realtà che conservano ancora i segni marcati delle avanguardie degli anni Sessanta/Settanta. L’eredità maggiore è la fuga dall’edificio ufficiale, deputato allo svolgersi del fatto teatrale: «Ci siamo abituati ad andare a teatro senza il teatro» afferma. La sperimentazione avviene allora ovunque vi sia la possibilità di mettere insieme artisti e un potenziale pubblico. Cita dunque quei «luoghi terzi» denominati dal sociologo americano Ray Oldenburg nel suo libro The Great Good Place (1989), intendendo con ciò lo spostamento del teatro in mezzi di trasporto, in giardini, nei caffè, nei mercati e così via. Questo dà vita a due modalità di fruizione da parte del pubblico: quella “di massa”, che solitamente si realizza in spazi aperti, e quella “intimistica” che avviene in spazi chiusi, poco capienti e destinata a un pubblico ristretto di numero; negli ultimi anni abbiamo assistito a spettacoli per uno spettatore alla volta.
Alessandro Iachino di Teatro & Critica interviene riflettendo sulla componente biografica che entra in campo in ogni sguardo. Si guarda un fatto teatrale e lo si influenza guardandolo. Uno sguardo puro non esiste, rimarca Iachino, portando alcuni esempi della scena teatrale e di danza recenti in cui gli spettatori sono chiamati in diverse forme a “partecipare” (le interviste de Gli Omini, lo sguardo peripatetico in Family di Virgilio Sieni ecc). Uno sguardo che partecipa è dunque uno sguardo politico, secondo Iachino, il cui intervento si chiude con una domanda. Ci sono molti progetti che chiedono agli spettatori di fare qualcosa oltre lo sguardo, chiedono di diventare organizzatori e direttori artistici. È ancora legittimo “solo” guardare, dunque, se poi dopo lo sguardo si deve sempre “fare”?
Chiude la giornata un denso intervento di Roberta Ferraresi, critica teatrale per Il Tamburo di Kattrin e membro della Commissione Consultiva Prosa Mibact. Non stiamo malissimo, dice Ferraresi, il quadro di normalizzazione segnalato da molti va comunque contestualizzato all’interno di una più generale temperie di chiusura di spazi di discussione politica (l’isolamento dei movimenti dopo Genova 2001, la crisi dell’associazionismo, la marginalizzazione di ogni tensione di contestazione ecc). La generazione di teatranti trentenni è in crisi, oggi? Probabilmente la condizione attuale è semplicemente “normale”, mentre l’iperproduzione alla quale ci hanno abituato gli anni daò 2005 al 2010 va ripensata come eccezionale.
Ferraresi riprende alcune delle asserzioni della giornata, quando sostiene che in realtà una delle grandi eredità degli anni ’70 è da rintracciarsi ancora oggi nell’invito a ripensare costantemente il valore d’uso del teatro, a mettere in discussione il suo senso profondo. Nei ’70 si è arrivati a parlare di “teatro senza spettacolo”, ci si è rinchiusi in conventicole, si è spostato il teatro nella pedagogia. Se oggi siamo tutti alla ricerca di pubblici diversi, se ci domandiamo come “aprire” il teatro dobbiamo ricordarci che queste tensioni sono possibili grazie alle ricerche di chi ci ha preceduto, noi veniamo da lì.
Al convegno di Ivrea nel 1967 si rimarcava la necessità di adeguare gli strumenti critici ai linguaggi teatrali del presente. Negli anni zero, in nome di una polifonia e di una fuga dalla normatività, la critica ha forse abdicato alla sua naturale tensione a dare i nomi alle cose (a movimenti, gruppi, estetiche). Così ci ha pensato il mercato. Allo stesso modo, ascoltando i resoconti dei protagonisti degli anni ’70 ci si accorge di una vicinanza fra critica e artisti molto netta. Oggi forse la critica si sta spostando avvicinandosi più al pubblico e allontanandosi dagli artisti.
La chiusura dell’intervento della studiosa è un monito a non dare per acquisite certe conquiste, anche dal punto di vista estetico. Tutto può sempre tornare indietro, tutto quindi va sempre difeso.
A cura di Giornalisti di Confine