INTERVISTA A MASSIMO GRIGÒ

Abbiamo incontrato al Teatro Manzoni di Pistoia Massimo Grigò, interprete del personaggio di Atto Melani ne La ferita della bellezza di Luca Scarlini, regia di Giovanni Guerrieri.

Foto di Michelle Davis

Il testo di Luca Scarlini trasforma in drammaturgia un frammento della storia di Pistoia…

Luca Scarlini si era già occupato del tema dei castrati in un romanzo dal titolo Lustrini per il regno dei cieli, che racconta di questa pratica e di come fosse diffusa in tutta Italia, non solo a Pistoia, ritenuta da alcuni la “maggior fucina”. Siamo nel periodo della Controriforma, durante il quale la Chiesa faceva auto-promozione con tutti i mezzi artistici di cui disponeva: la pittura, la scultura, ma anche le famose messe cantate. La Chiesa era il committente principale e i castrati nascevano per cantare nei riti religiosi. Questi godevano di un’estensione vocale impressionante e avendo la cassa toracica di un adulto, con le corde di un ragazzo, la loro potenza canora era inaudita. La parte più amara della loro esistenza consisteva però nell’impossibilità di scegliere: una volta castrati, infatti, non avrebbero potuto fare altro che cantare, e non tutti hanno avuto il successo di Atto – la maggior parte finiva per cantare in un paesino di montagna. Erano scelti da piccoli, poi strappati alla famiglia ed educati nelle accademie ecclesiastiche dove imparavano la musica; non studiando altro dalla mattina alla sera arrivavano all’orecchio assoluto già a partire dai 12 anni. Un importante passo nella carriera di un castrato era la carica di maestro di cappella, come Monsignor Felice Cancellieri che ha fondato qui a Pistoia l’Accademia dei Risvegliati (con sede nell’attuale Teatro Manzoni) ed è stato maestro dei virtuosi pistoiesi, in particolare dei fratelli Melani: Iacopo, Alessandro e Atto.

Parlaci della figura di Atto: è complessa ed eterogenea. Potresti fornirci un breve quadro storico?

Atto Melani offre molti spunti di approfondimento. Basti pensare alla serie di romanzi di Rita Monaldi e Francesco Storti (da Imprimatur in avanti) che hanno sfruttato il ruolo dell’Abate come probabile spia dei Medici. Poiché Atto, interpretato da me, lavorava come cantante alla corte di Luigi XIV, si narra che facesse l’informatore (forse doppiogiochista) per Firenze. Uno studio più storico e documentato è quello dell’anglosassone Roger Freitas, appassionato di opera lirica che nel 2009 ha scritto una monografia su Atto (Portrait of a Castrato: Politics, Patronage, and Music in the Life of Atto Melani). Sappiamo che era figlio del campanaro del Duomo di Pistoia, aveva sette fratelli, sei dei quali castrati. Lui, Jacopo e Alessandro furono i più celebri. A trent’anni Atto divenne protetto della famiglia Medici, i quali, come omaggio, lo mandarono a Parigi, dove Luigi XIV organizzava feste in suo onore e la regina gradiva ascoltarlo durante la prima colazione del mattino. Diventato gentiluomo e anche abate, quando smise di cantare iniziò la carriera del diplomatico; lo hanno definito spia, ma lui in realtà era una sorta di ambasciatore. Alla corte di Francia però non fu apprezzata la sua decisione di abbandonare la musica, né tanto meno l’ambizione di far parte del mondo nobiliare, nel quale entrò a fatica. Cadde in disgrazia con la sconfitta di Foquet nella successione di Mazzarino e fu esiliato a Roma, dove continuò a fare il gentiluomo investendo in proprietà e muovendosi all’ombra dei potenti.

Quanto è stato importante per te conoscere il contesto storico in cui è vissuto il personaggio che interpreti?

Bisogna fare uno studio approfondito, cercando di conoscere tutto quello che c’è da sapere per poter dar vita al personaggio, così se il regista mi dà una suggestione, essendo preparato, sono in grado di rielaborarla con più consapevolezza. Questa è la mia filosofia. Io non sono l’autore e nemmeno il regista, l’attore deve comunque seguire i loro suggerimenti e la lettura che fanno del testo. Io ho voluto approfondire il passato di Atto, scoprendo chi era suo padre, che da piccolo era povero e abitava in una fattoria, com’era la Pistoia del 1610-1620. Può capitare di avere un’idea che non corrisponde a quella del regista, ma è più facile trovare un punto di incontro se si padroneggia l’argomento trattato. Ci sono anche degli attori che portano avanti la propria idea, che entrano in contrasto con la visione registica, a me non è mai successo, io ho sempre incontrato registi carismatici.

Vuoi dirci qualcosa sulla tua formazione teatrale?

Ho iniziato alla Bottega di Gassman a Firenze; lui aveva il suo stile indimenticabile, che oggi sarebbe anacronistico da riproporre, ma per me è stata un’esperienza formativa importante. Un’attrice che ho incontrato e con cui ho lavorato per tre anni, altro caposaldo della mia formazione, è stata la ‘ronconiana’ Marisa Fabbri. Parliamo degli anni Settanta, quando lei aveva la mia età attuale e insegnava in Accademia a Roma. Siamo stati colleghi ma nonostante la sua grandezza non si è mai posta con superiorità nei miei confronti. Ho ‘rubato’ tanto da lei, diceva che «il teatro è sempre in divenire» perché specchio della società, quindi il tipo di recitazione deve stare al passo coi tempi, in metamorfosi continua. L’attenzione ai giovani è fondamentale, non si può parlare solo di sé, cosa che succede a molti attori; l’atteggiamento giusto è: «io mi propongo e cerco di migliorare e cambiare». Diffido sempre da coloro che hanno certezze.

Da dove è nata l’idea di mettere in scena proprio la storia di Atto Melani?

È nata da me. Quando hanno annunciato che Pistoia sarebbe stata Capitale Italiana della Cultura 2017 mi sono informato sulle eccellenze pistoiesi. Ne sono saltate subito due agli occhi: la storia dei fratelli Melani, virtuosi, e l’UFIP, azienda pistoiese famosa in tutto il mondo per la produzione di piatti per batterie. D’accordo con Annibale Pavoni, attore con cui collaboro da una decina d’anni – una di quelle amicizie che trovi in teatro e rimangono per tutta la vita – abbiamo presentato il progetto a Rodolfo Sacchettini, presidente dell’ATP. Lui ha approvato l’idea di uno spettacolo che parlasse della famiglia Melani e ha scelto Luca Scarlini come autore, perché aveva già trattato l’argomento, e Giovanni Guerrieri come regista.

Siamo curiosi di sapere quale dei tanti aspetti della vita di Atto emergono dallo spettacolo.

Luca Scarlini ha immaginato il rapporto tra Atto e l’unico fratello non evirato, Giacinto, scelto dal padre per portare avanti il nome della famiglia e soprattutto amministrarla. I proventi del lavoro dei tre fratelli più celebri (tra cui Atto) permise alla famiglia di acquistare alcune ville a Pistoia, lasciando quindi una ricca eredità ai nipoti. Il rapporto tra i fratelli, che non si erano mai parlati, è l’intreccio del racconto. C’è una notevole distanza tra i due: Giacinto è rimasto a Pistoia tutta la vita e ha una mente molto chiusa, l’altro ha viaggiato e ha ambizioni aristocratiche. C’è anche un terzo personaggio che fa da tramite col pubblico: ma ve lo presenta il collega Maurizio Rippa che lo interpreta.

Interviene il contraltista e attore Maurizio Rippa

Il mio non è un vero personaggio, è più un gioco metateatrale; semplificando potremmo definirlo un narratore. È un provocatore che commenta e fornisce i riferimenti storici e le informazioni necessarie per comprendere meglio i ruoli della vicenda. Io non sono presente nella storia ma solo scenicamente: un gioco registico nel quale i personaggi non mi vedono, gli attori sì. Avendo studiato prevalentemente musica barocca, sono stato scelto per dare voce alle parti cantate con l’accompagnamento di Manuel Gelli al clavicembalo.

Giulia Bravi

(con la collaborazione di Glenda Giacomelli e Francesca Monfardini)