Giornalisti di Confine, insieme a un gruppo di studenti di un percorso di Alternanza Scuola-Lavoro, raggiungono Villa Scornio in occasione del Pistoia Teatro Festival per assistere alle prove dello spettacolo “Giro del mondo in 80 giorni_kids” della compagnia Sotterraneo.
Come mai “kids”? Proprio perché lo spettacolo, oltre a essere indirizzato anche ai giovanissimi, è allestito come uno storygame itinerante a cui gli allievi della Scuola di Musica “Teodulo Mabellini” di Pistoia e il Coro “Voci Danzanti” – Fondazione Pistoiese Promusica partecipano in modo attivo, accompagnando musicalmente e vocalmente i tre attori in scena: Sara Bonaventura, Claudio Cirri e Mattia Tuliozi.
Il progetto consiste in un percorso all’interno del parco della villa che si snoda toccando una serie di tappe diverse e coinvolgendo spettatori di tutte le età, dai 9 ai 90 anni.
Noi siamo riusciti a intervistare alcuni elementi di questo gruppo, bambini e ragazzi dai 10 ai 18 anni, che ci hanno raccontato la loro esperienza “in giro per il mondo”.
A cura di Marta Bongi, Giulio Pacini e Maria Giulia Gervasi, con Marzio Badalì.
Giornalisti di Confine in giro per la città: che cosa è il teatro?
Giornalisti di Confine, insieme a un gruppo di studenti di un percorso di Alternanza Scuola-Lavoro, girano per la città, incontrano le persone e chiedono loro: che cosa è il teatro?
A cura di Leonardo Altimari, Simone Barontini, Alice Pacini, Gaia Pellegrin, Scarleth Stefanizzi, con Alfredo Marasti.
Il Vangelo secondo Judah, dialogo tra misericordia e tradimento
Se Giuda non fosse stato un traditore, o non avesse voluto esserlo? Come sarebbe cambiata la storia degli ultimi millenni? E, soprattutto, se non avesse voluto, perché ha tradito Gesù? Quando l’ATP ha commissionato a Stefano Massini uno spettacolo, la richiesta era di creare un testo che avesse a che fare con le Sette Opere di Misericordia del Fregio robbiano. Ed ecco, dunque, la rappresentazione di un Giuda che è il più misericordioso degli Apostoli, che non vuole tradire ma è destinato a farlo, le cui scelte sono sottomesse a un disegno da cui non può fuggire.
È proprio il Fregio a dialogare, per tutta la durata de Il Vangelo secondo Judah (andato in scena il 18 giugno scorso, regia di Claudia Sorace, con Ugo Pagliai e Luigi Lo Cascio), con il testo di Stefano Massini e con le musiche di Enrico Fink, seguendo Giuda nel suo drammatico racconto: la nascita, già segnata dalla consapevolezza del suo destino, il battesimo nel Giordano, l’incontro con Gesù, la fuga dalla sua sorte che, però, inesorabilmente fa il proprio corso. Così Giuda tenta di scappare da se stesso, ma si ritrova a dialogare con Gesù, nato nel medesimo istante, e a morire insieme a lui, dopo averlo tradito e venduto.
Lo spazio occupato dai due attori è spoglio: già di per sé scenografico, lo Spedale del Ceppo è decorato solo dal Fregio robbiano, illuminato con una semplice luce bianca, e di tanto in tanto le campate vengono colorate da luci più o meno intense che seguono l’andamento della lettura e richiamano le immagini evocate dal testo. La piccola orchestra, composta dai docenti della Scuola Mabellini di Pistoia, è disposta lungo il confine di piazza Giovanni XXIII, ed esegue musiche che, a volte in completa sintonia e a volte in contrasto col testo, creano l’atmosfera in cui ambientare le scene evangeliche raccontate, seguendo al contempo le riflessioni intime del protagonista.
I due attori hanno fornito interpretazioni molto differenti – quella di Lo Cascio intima e musicale, quella di Pagliai più scandita ma comunque vivace – rendendo perfettamente l’idea della dualità che caratterizza Giuda: quella del traditore misericordioso, di colui che condanna Gesù senza volerlo, che fugge da sé stesso ma non può fare a meno di sentirsi partecipe del proprio destino. Ma la contraddizione è addirittura maggiore: Giuda è allo stesso tempo libero ed inserito in un progetto divino, e la sua unica vera libertà è quella di accettare il progetto che gli è stato destinato.
La vita di Giuda non è caratterizzata dalla crescita: consapevole della propria sorte già dal momento prima di nascere, «nell’età in cui tutti si credono eterni, io scoprii di non esserlo» scandisce Pagliai raccontando del battesimo del protagonista. La sua storia non è segnata da un rapporto con Dio, ma da una relazione con se stesso, con la propria duplicità, dando per scontato e quasi mai mettendo in dubbio il destino assegnatogli.
La domanda che attanaglia Giuda – più che una domanda, appunto, è una constatazione – dovrebbe interrogare anche il pubblico, rievocando l’idea che già gli antichi proponevano del Fato: siamo veramente liberi? Non si tratta di una libertà sancita dalla legge o da una carta costituzionale, ma di qualcosa di più profondo e insito nella nostra natura: siamo dotati di libero arbitrio o siamo sottomessi a una legge superiore, a un disegno prestabilito?
Il testo di Massini non fornisce una risposta: si potrebbe pensare che una predestinazione insormontabile sia stata assegnata solo a Giuda, partecipe del progetto divino di salvezza, e non a tutti gli uomini. Più che altro, ci porta a rivalutare la Storia e a mettere in dubbio i comportamenti dei suoi personaggi – forse uomini che hanno seguito un progetto prestabilito e non hanno agito di propria sponte, con una effettiva libertà.
Ciò che si avvicina più alla realtà dello spettatore, di ognuno di noi, non è tanto la riflessione su Giuda, quanto la riflessione di Giuda: la pesantezza di sentirsi parte di un progetto, la difficoltà di una vita che non è semplice ricerca di uno scopo, ma realizzazione di un fine già deciso. «Per un uomo solo una cosa è peggiore di non avere un compito, ed è scoprire di averlo. Nel mio caso sapevo adesso di avere una strada, ma ignoravo quale. Tutto guardava a un altare futuro, a cui sarei giunto per farmi immolare. Ma ignoravo come, ignoravo quando. Per cui tutto, d’ora innanzi, sarebbe stato solo un aspettare». In questo Giuda non è diverso da tutti gli uomini, certi di avere uno scopo ma dubbiosi su quale esso sia, assorbiti dalla certezza e dimentichi che «la vita è un fatto, non un progetto».
Credo non abbia senso, però, estraneare eccessivamente il testo dalla sua vera natura: un apocrifo raccontato dallo stesso Giuda, che è l’unico protagonista e il vero cardine dell’interpretazione: non è più Gesù al centro del racconto evangelico, la salvezza degli uomini adesso è legata alla scelta e alla pseudo libertà del quarto figlio di Iscariota. Il lavoro svolto da Massini sui Vangeli non canonici è profondo e ha come scopo, d’altra parte, quello di reinterpretare la figura di Giuda e metterla in relazione con la misericordia: non tanto quella divina, quanto quella del protagonista stesso e, forse, anche quella del pubblico, mosso a compassione verso un personaggio da sempre additato come “traditore” per antonomasia.
Lapo Ferri
L’umanità allo specchio. Il Vangelo secondo Judah di Stefano Massini
«[…] io ho sempre detto, a me non interessa fare il testo di catechismo dove dici chi verrà dannato e chi verrà salvato, mi interessa se non altro porre dei problemi e delle domande su qual è il peccato. Se di peccato si può trattare.» Così diceva il drammaturgo Stefano Massini nel 2014, presentando l’acclamatissima Lehman Trilogy (premio Ubu 2015 e ultima grande regia di Luca Ronconi) al Piccolo di Milano. Dichiarazione che diventa quasi profetica parlando del Vangelo secondo Judah, ultimo lavoro di Massini, presentato in apertura del Pistoia Teatro Festival la sera di domenica 18 giugno, con la mise en espace di Claudia Sorace. Non uno spettacolo ma una lettura scenica – come la stessa regista ha precisato nell’intervista rilasciata ai ragazzi del laboratorio Giornalisti di confine – dove ad assumere centralità è soprattutto il testo. Testo che non necessitava, afferma sempre la Sorace, di sovrastrutture scenografiche o ricostruzioni storiche di alcun tipo; sono invece le musiche di Enrico Fink (grande sperimentatore della musica tradizionale ebraica) e la location scelta (Il loggiato dello Spedale del Ceppo in Piazza San Giovanni XXIII, sotto il celebre Fregio di Della Robbia che raffigura le Sette opere di Misericordia) gli unici elementi esterni al racconto di un Giuda mai così esplicitamente fragile e tormentato, con la doppia interpretazione di Ugo Pagliai e Luigi Lo Cascio.
Non serve essere biblisti o archeologi per cogliere quanto il lavoro di Massini sia profondamente intriso di religiosità e cultura ebraica; intervistato da Goffredo Fofi nel pomeriggio, poche ore prima della lettura, è stato lui stesso a raccontare nel dettaglio l’avvicinamento della sua famiglia alla comunità sefardita di Firenze, a contatto con la quale Massini è cresciuto anagraficamente ed artisticamente, non nel segno di una conversione bensì di una particolarissima contaminazione umana e culturale. Il suo Vangelo secondo Judah, lungi dall’essere una riscrittura del corrispondente vangelo apocrifo, è un’opera del tutto autonoma, comunque inscindibile dall’universo religioso di riferimento grazie alla struttura – nessuna divisione in atti, ma brevi paragrafi in successione come nella narrazione evangelica, circa 120 – e alla ricchezza di immagini, parole, suggestioni direttamente riconducibili ai testi sacri. È in effetti un silenzio quasi religioso quello creatosi in apertura, un raccoglimento come di fronte ad una sacra rappresentazione. Una voce salmodiante, femminile, si sovrappone a percussioni di sapore orientale mentre iniziamo a intravedere i due attori sulla scena ancora buia.
Nella parte sinistra del loggiato, mentre sfuma la musica, vediamo comparire Luigi Lo Cascio; in quella destra, più avanti, comparirà Ugo Pagliai. La lettura li vede alternarsi poche volte, con interventi individuali molto lunghi. Entrambi, nella seconda parte, compiono un passo di avvicinamento verso l’altro spostandosi di una loggia rispettivamente a destra e a sinistra, senza mai giungere a incontrarsi o a scambiarsi di posto. L’idea di un dualismo manicheo ma complementare tra i due – la prima cosa che viene in mente, la più scontata se il tema di fondo è la necessità del Male – non trova alcun riscontro durante la lettura. In effetti tra i due Giuda sulla scena non c’è contrasto, almeno non sul piano strettamente drammaturgico. Sembra invece configurarsi una sorta di rapporto osmotico, uno scambio di flussi agiti da entrambi nel corso della lettura, seppure con un dosaggio diverso a seconda della scena. Sia Lo Cascio che Pagliai danno voce, a turno, tanto al Judah fragile che a quello cinico, tanto al Judah avventato quanto a quello maturo. La scrittura di Massini, per niente estranea al tema del doppio, non cade mai nella banalità di consegnarci un Judah criminalmente bipolare, con una metà chiara e una scura. Lo scarto di anagrafe e di tradizione fra i due attori, le loro differenze timbriche e di registro, si traducono sorprendentemente in due voci diverse che raccontano la stessa storia. Il 49enne Lo Cascio parte con una recitazione classica e impostata per poi scomporla costantemente, a tratti deformandola in direzione un po’ beniana e cantilenante, a tratti “rappando” sulla musica; l’ottantenne Pagliai mantiene una narrazione elegante e dolcemente monotona, con poche eccezioni, per tutta la durata della lettura. Le musiche di Fink, dagli arrangiamenti curatissimi e lineari, contribuiscono ad unificare ed armonizzare l’insieme. Il Fregio Robbiano, valore aggiunto e parte integrante dello spazio scenico, brilla sopra il loggiato durante tutta la lettura, incastonato da un’illuminazione minimale.
La lettura non esamina se non in minima parte il tradimento di Judah, il suicidio, la crocefissione di Cristo: tutto questo rimane implicito, perché fa parte di una storia che già sappiamo. Assistiamo invece al racconto impossibile e appassionante della vita interiore di Judah, intrecciata a quella di Gesù (nella lettura Yehoshùa, come da tradizione ebraica) fin dagli abissi del nulla precedente al grembo materno. I due nascono insieme, anzi è l’anima di Yehoshùa a convincere quella di Judah, fin dall’inizio ostinata e contraria, a venire alla luce; come anche più avanti, nella parte finale, sarà Yehoshùa ad accompagnare Judah all’impiccagione, quasi tenendolo per mano – i due muoiono insieme così com’erano nati, entrambi pendendo da un legno. Tra i due momenti, a sostanziare l’opera è una prolungata, tormentatissima adolescenza, in cui i due compiono il difficile cammino – Yehoshùa con vera convinzione, Judah esitando fino all’ultimo – di eseguire un disegno già scritto e inevitabile. Se Judah si è fatto ladro, sembra dirci l’autore, è per reazione all’essere stato derubato della propria vita, della possibilità di una vita diversa.
Gli agganci con i temi del “doppio” e degli specchi di borgesiana memoria si sprecano: Lo Cascio e Pagliai si alternano dando ad almeno tre Judah, con uno schema che rievoca i fantasmi del Canto di Natale di Dickens: il Judah futuro forse un demonio, o il demonio – compare al Judah del passato, apparentemente per avvertirlo che può ancora cambiare strada, emanciparsi da una trama già scritta per lui. In realtà per tarpargli le ali: una ferita, identica sul braccio dei due ma già cicatrizzata nel futuro, li unisce lungo un percorso ineluttabile. Allora è il Judah del presente che si sdoppia, si guarda dall’esterno, si auto-rappresenta illudendosi (e illudendo lo spettatore) di potersi discostare dal suo compito. Il terzo Judah non agisce davvero nel dramma, è per l’appunto il Judah che conosciamo, con il suo copione classico (i trenta denari, il bacio, l’impiccagione), un personaggio che sembra inventato e a cui il Judah del presente davvero non crede di potersi conformare fino in fondo.
Il racconto ci porta buffamente anche a conoscere tre diversi Yehoshùa – nome comune all’epoca – poiché prima di imbattersi nel Gesù storico Judah ne incontrerà altri due, cadendo in una serie di fraintendimenti ed equivoci, alternando brevi momenti di euforia e fiducia per poi ripiombare nella consapevolezza di ciò che è inevitabile. Consapevolezza ardua da accettare anche da parte dello stesso Yehoshùa, intristito dal peso che grava su Judah, e se possibile ancora più invischiato nella trama: se Judah può permettersi la rabbia e il rifiuto, Yehoshùa può al massimo offrirgli il proprio dispiacere, la propria misericordia, il proprio aiuto: come si fa con un fratello minore, per aiutarlo a crescere.
Ma il vero specchio del Vangelo di Massini è l’umanità – cioè noi – nel suo cammino di scoperta e accettazione del dolore; un dolore per cui non sembra esistere cura (un paradosso in un dramma rappresentato nel loggiato di un antico ospedale) né salvezza (un paradosso in un dramma ispirato ad un Vangelo, per quanto apocrifo). Massini, rielaborando il tema della parabola della vigna («gli ultimi saranno i primi»), sintetizza l’umanità in tre categorie: i destinati a tradire come Judah, i destinati a essere traditi come Yehoshùa, e poi, per l’appunto, gli ultimi, coloro che rimangono fuori dai percorsi della Storia e del destino, gli inutili, i dimenticati. Beati saranno questi ultimi, ci dice Il Vangelo secondo Judah conducendoci ad un finale dolce e amarissimo al tempo stesso, poiché non dovranno affrontare il peso della scelta, poiché altri sceglieranno per loro.
La riscrittura del testo biblico, o qualsiasi opera che vi si ispiri, porta sempre con sé tutto l’immaginario potente, epico dell’incontro/scontro tra Bene e Male; a quest’immaginario attingono le arti più diverse, tendendo però ad appiattirsi su modalità di rappresentazione e di linguaggio autoreferenziali ed in genere poco pervasive, mirando ad intrattenere il pubblico (le grandi saghe cinematografiche e televisive da Star Wars a Lost a Harry Potter) o a indottrinarlo sfruttandone la passività (la divulgazione frontale dell’ultimo Benigni, il generico “evento culturale”). Massini riesce ad evitare tutto questo, consegnandoci un’opera inimitabile, laica, innovativa, conturbante. Sarà interessante assistere a eventuali future produzioni che potranno raccontarcela fuori dal contesto del loggiato dello Spedale del Ceppo, location particolarissima e irripetibile davanti alla quale un pubblico di circa 500 persone, rapito e partecipe, ha seguito la lettura per tutte le due ore e mezzo di durata.
Alfredo Marasti
Vieni al Pistoia Teatro Festival? Chat audio
La Redazione di “Giornalisti di Confine” racconta il Pistoia Teatro Festival attraverso la diffusione di brevi messaggi vocali. Impressioni personali, suggestioni e pensieri sparsi inviati ad amici sconosciuti, come un messaggio in bottiglia nel mare magnum del web.
Il Vangelo secondo Judah. Intervista video a Claudia Sorace
Il Vangelo secondo Judah è stato l’evento di apertura del Pistoia Teatro Festival 2017. Una lettura scenica del testo di Stefano Massini con Luigi Lo Cascio e Ugo Pagliai. Abbiamo sentito la regista Claudia Sorace
Pistoia Teatro Festival 2017. Conversazione con Rodolfo Sacchettini
Abbiamo chiesto a Rodolfo Sacchettini, presidente dell’Associazione Teatrale Pistoiese, di raccontarci come nasce il Pistoia Teatro Festival
Un invito agli spettatori a essere un po’ matti
Questo è un anno speciale per Pistoia, perché è stata riconosciuta Capitale Italiana della Cultura 2017. Pistoia, così come tante altre città italiane, ha partecipato con il suo progetto al bando indetto dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, posizionandosi al primo posto e superando di fatto città con strutture di produzione ben più grandi. La città di Pistoia è stata premiata perché il progetto che ha presentato, oltre a essere molto valido dal punto di vista artistico, è anche molto concreto, quindi realizzabile. La linea guida è stata tracciata partendo dalla ferma convinzione che quanto riportato nel dossier presentato al Ministero avremmo cercato di realizzarlo in ogni caso, anche se non avessimo vinto il bando; a costo di impiegare più tempo del previsto per cercare le risorse necessarie. L’obiettivo è sempre stato quello di concretizzare un progetto culturale che guardi avanti, al futuro. L’Associazione Teatrale Pistoiese è molto soddisfatta di questo risultato, anche se tengo a precisare che alcune attività inserite all’interno del programma sono frutto del potenziamento di progetti già esistenti, come la stagione teatrale, che è stata incrementata presentando una produzione che una città di provincia non avrebbe potuto mai permettersi. Quella di quest’anno è stata una stagione da teatro nazionale, con la presenza di alcune delle produzioni più importanti del circuito italiano. Possono piacere oppure no, sia chiaro, ma noi abbiamo cercato di scegliere le migliori per offrire a Pistoia la possibilità di vedere degli spettacoli che in altre circostanze sarebbe stato molto difficile ospitare. Accanto ai vari “potenziamenti” c’è stata poi l’invenzione di nuove attività: una di queste è proprio il Pistoia Teatro Festival. Il punto di partenza è stato il tentativo di non focalizzarci sulla creazione di un grande evento attorno alla città di Pistoia, e dunque fine a se stesso. L’ATP non è un’impresa privata, siamo un teatro pubblico interessato a un’attività che possa avere una sua rilevanza culturale e, soprattutto, che sia in grado di lasciare qualcosa agli spettatori, che non si esaurisca con la fine di Pistoia Capitale della Cultura. Il festival, a tal proposito, si è rivelato una forma molto utile allo scopo, innanzitutto perché, a differenza di una stagione teatrale, è circoscritto in un lasso di tempo estremamente limitato, e ciò comporta un’inevitabile accelerazione degli appuntamenti e una condensazione delle attività. Quando ci sono tempi ristretti in cui accadono tante cose io posso permettermi di immaginare uno spettatore che nell’arco di una stessa giornata partecipi a più iniziative e guardi più di uno spettacolo. All’interno di una normale stagione teatrale nessuno penserebbe mai di vedere nella stessa sera Vita di Galileo e Sei personaggi in cerca d’autore. Sarebbe da matti. Ecco, con il festival in un certo senso invito gli spettatori a essere un po’ matti per qualche giorno, a immergersi completamente in un viaggio che attraverso la distorsione temporale in cui si snoda permette di vedere nello stesso giorno anche fino a tre spettacoli diversi e, sopratutto, di fare una cosa utile e fondamentale come legare insieme le esperienze di fruizione. È anche attraverso una scelta simile che si capisce il percorso che sta seguendo la direzione artistica, perché il festival non è semplicemente un contenitore di appuntamenti, ma un vero e proprio progetto organico.
Una comunità di esperienze
L’Associazione Teatrale Pistoiese, insieme al Comune di Pistoia, si rivolge alla comunità, ai cittadini, per parlare loro di cultura. Proponiamo un certo tipo di visione teatrale e quindi un certo “gusto”, una certa modalità operativa. Coinvolgendo artisti diversi, dove ognuno apporta la propria arte, mi auspico che si crei una comunità di spettatori molto eterogenea, che attraverso l’intensità esperienziale vissuta in modo collettivo permetta a ciascuno di noi di aprire nuove porte, ovvero capire qualcosa di più di noi stessi, degli altri, del mondo.
Il programma, da Massini a Sieni
Il programma del Festival è composto per metà da artisti con cui abbiamo già collaborato negli anni precedenti, mentre l’altra metà è riservata agli ospiti, ai nuovi incontri. Queste sono le motivazioni che ci hanno spinto a presentare all’interno del dossier per Pistoia Capitale della cultura 2017 il formato del festival teatrale. Una novità per Pistoia, che non ha mai avuto un festival di teatro, ma che è caratterizzata da un festival di musica molto importante: il Pistoia Blues. Alle sue origini, quando ancora era in forza il mondo underground giovanile, l’esperienza del festival era davvero totalizzante; oggi forse è più diluita, ma continua a essere presente. Non abbiamo voluto proporre una versione teatrale del Pistoia Blues, però abbiamo cercato di offrire un’esperienza della stessa natura che riguardi il teatro; cosa che qui a Pistoia non è mai stata fatta, quindi un’idea completamente nuova. Questo festival è frutto di cinque anni di lavoro, durante i quali abbiamo cercato di dimostrare che non basta avere buone idee, cosa peraltro già abbastanza difficile, ma che quelle idee si realizzano solo con la concretezza e l’impegno. In questi anni infatti abbiamo iniziato l’esplorazione del teatro nelle sue forme molteplici. I teatri sono fatti di storie e percorsi diversi che si intrecciano e noi abbiamo provato ad aprire le porte ad artisti giovani e del posto, dando loro lo spazio necessario; come abbiamo fatto con la compagnia pistoiese de Gli Omini, oggi una delle realtà italiane più importanti della nuova generazione. È anche il caso di Teatro Sotterraneo, giovane compagnia fiorentina attiva qui a Pistoia, che ha un progetto da respiro europeo. Fra l’altro entrambe le compagnie lavorano sul comico, su quella risata che oscilla tra ferocia e disperazione.
Tale risultato è stato raggiunto dopo un percorso piuttosto lungo, faticoso e capillare, modificando poco alla volta il sistema produttivo e coinvolgendo compagnie giovani e registi già affermati nel panorama nazionale, come per esempio Federico Tiezzi, uno dei registi di riferimento del Piccolo Teatro di Milano, la cui Compagnia e Laboratorio Teatro della Toscana hanno sede a Pistoia. Le sue co-produzioni sono sempre con noi e di questo siamo molto fieri; dimostrazione che abbiamo ottenuto una struttura solida, una fucina molto ricca.
Un altro importante progetto è “Cantieri del Gesto” di Virgilio Sieni; il suo lavoro, tra professionisti e non, dura già da tre anni e sarà presente al festival con due azioni coreografiche dedicate al Fregio robbiano dello Spedale del Ceppo: Fregio e Cammino popolare. Il centro vivo e brulicante di Pistoia favorisce la crescita di una comunità e questo è uno dei motori che sono serviti per costruire un festival che si svolge in spazi pubblici, all’aperto, costruendo un dialogo tra i luoghi più significativi e i cittadini che ancora oggi lo abitano.
La ricerca del Genius loci
Il teatro ha bisogno di radici e di ascoltare i luoghi in cui si svolge, ha bisogno di storie, non tanto di valorizzare il territorio ma proprio di mettersi in relazione con esso, con il Genius loci, come dicevano i latini. Questo rappresenta la sua peculiarità, è qualcosa di magnetico. Proveremo dunque creare un dialogo tra il teatro, la città e i suoi luoghi specifici; metterci in ascolto dei luoghi vuol dire trarne delle suggestioni, scoprire maggiormente gli spazi in cui viviamo. Il pubblico che si avvicinerà a questo festival sarà un pubblico che ha voglia di scoprire, o di riscoprire, la città di Pistoia, illuminata da luci nuove e da nuovi punti di vista. Saper interpretare il valore dei luoghi, saper ascoltare il Genius loci, vuol dire comprenderne il carattere, capirlo intimamente. Pistoia per me ha un Genius loci molto interessante, ci sono dei luoghi che lo raccontano, e quello principale del festival è lo Spedale del Ceppo in piazza Giovanni XXIII, col suo meraviglioso Fregio dall’incredibile potenza narrativa che rappresenta le Sette Opere di Misericordia, qualcosa di estremamente concreto, comunicativo e immediato per chi lo guarda. Il Ceppo è diventato una delle aree simbolo di Pistoia Capitale nel tentativo di rivalorizzarne tutta l’area, per restituire un pezzo di città alla città. Tre progetti, nello specifico, sono fortemente connessi a questo luogo. La signorina Else (regia di Federico Tiezzi ndr), per esempio, è in scena al piccolo Teatro Anatomico; il luogo però non deve essere considerato come un semplice “set”, bensì come un elemento drammaturgico: ha lo stesso valore del testo. La scelta specifica del luogo dà la chiave critica e interpretativa del testo di Arthur Schnitzler, dimostrazione di quanto possa essere determinante la scelta dello spazio in cui rappresentare uno spettacolo.
Un andamento circolare
Il festival si aprirà e si concluderà nello stesso posto: in Piazza Giovanni XXIII, davanti al Fregio robbiano. L’evento inaugurale del festival, Il Vangelo secondo Judah, parte appunto dal Fregio, nel tentativo di mettersi in relazione con quest’opera. Non è stato facile coinvolgere Stefano Massini, in questo momento nel mondo è il drammaturgo italiano più tradotto e rappresentato, ma ha apprezzato molto la nostra proposta e l’idea di partire dal Fregio, con l’intento in un certo senso di “sfidarlo”, cioè lavorare in opposizione con un racconto in soggettiva. Massini parte dalla concezione che nei Vangeli apocrifi si ha di Giuda come l’essere più misericordioso. La questione è: Giuda, quanto è stato veramente libero di scegliere? Se tutto era già scritto, allora anche il suo destino era già deciso e dunque la sua scelta inevitabile. Questo ci pone di fronte alla grande domanda dell’uomo sul libero arbitrio. È già tutto scritto sul filo di un destino programmato oppure noi siamo liberi di scegliere, di essere gli artefici della nostra fortuna? Ne è nato un testo molto forte, avvincente, assolutamente meraviglioso, un testo teatrale scritto come fosse, appunto, un vangelo, diviso in piccoli paragrafetti e strutturato in forma di monologo. È stato interessante mescolare questo aspetto popolare del vangelo con quello più “verticale” a cui fanno capo le domande ultime dell’umanità: quanto siamo liberi? Il Vangelo secondo Judah è una mise en espace a cura di Claudia Sorace, che ne ha fatto un lavoro di luci molto raffinato. I due attori, Luigi Lo Cascio e Ugo Pagliai, che leggono il testo di Massini, ci mostreranno i due diversi caratteri di Giuda, da una parte il desiderio di ribellarsi al proprio destino, dall’altra la rassegnazione all’ineluttabilità degli eventi. Le musiche sono state composte appositamente per la serata da Enrico Fink, considerato uno dei principali interpreti della tradizione ebraica in Italia, quindi assolutamente in linea con la storia.
Chiuderà il festival Virgilio Sieni, con un lavoro sulla condivisione e sull’incontro sempre ispirato al Fregio dello Spedale del Ceppo. Verranno create coreografie dislocate in luoghi diversi della città, a cui parteciperanno cittadini e giovani danzatori, e un’azione coreografica che si chiama Bassorilievo, atta a creare una sorta di tableau vivant proprio sulla rappresentazione dei grandi temi umanitari che compongono il Fregio. La sfida sarà far capire alle persone il carattere di eccezionalità di questo festival: a Pistoia sta accadendo qualcosa di straordinario, aperto a tutti ma con un alto livello di qualità artistica. Invitare quattrocento persone a vedere uno spettacolo di due ore il 18 giugno in Piazza Giovanni XXIII non è facile, ma io sono convinto che riusciremo a creare qualcosa che sia in grado di lasciare un segno.
Una nuova tradizione teatrale
Per quanto riguarda il teatro a Pistoia c’è sempre stata una grande tradizione di ospitalità. Tante importanti compagnie sono passate di qui, ma il Genius loci di Pistoia è senza dubbio legato alla musica. Il pistoiese medio conosce la musica molto più di qualsiasi altro italiano medio. C’è proprio una sensibilità maggiore dovuta alle numerose opportunità che la città offre in tal senso. Ciò che non esiste ancora è una tradizione produttiva teatrale in senso stretto. Quello che sto cercando di fare è creare l’humus adatto, cioè le condizioni culturali ideali affinché possa nascere e crescere proprio qui a Pistoia un giovane gruppo teatrale. Gli Omini, per esempio, esistevano già come compagnia prima ancora che io arrivassi qui, e l’intenzione è stata proprio quella di valorizzare un gruppo giovane e dare loro gli strumenti per crescere, dallo spazio per provare agli aiuti tecnici. Le condizioni migliori per incentivare la formazione di una comunità teatrale solida si possono ottenere però solo creando il miglior pubblico possibile, un pubblico che sia curioso, attivo, che partecipi con costanza; e tutto questo, come un contagio, diffonde cultura.
Giuda in letteratura e musica, prima del “Judah” di Massini
Il Pistoia Teatro Festival apre questa sera tornando sul controverso personaggio di Giuda Iscariota, per mano di Stefano Massini. Fiorentino, classe 1975, autore dell’acclamatissima Lehman Trilogy, è ad il drammaturgo italiano più rappresentato all’estero.
Il suo Vangelo secondo Judah debutta questa sera alle 21:30 in Piazza San Giovanni XXIII di fronte – come per un dialogo – al celebre Fregio Robbiano che raffigura le Sette opere di Misericordia. Misericordia di Giuda, misericordia per Giuda o entrambe? Chi assisterà saprà. La mise en espace del testo è a cura di Claudia Sorace, le musiche sono di Enrico Fink: leggono Ugo Pagliai e Luigi Lo Cascio. Base di ispirazione per Massini è stato l’apocrifo Vangelo di Giuda, testo gnostico di tradizione complessa e frammentaria. Ma perché tornare oggi su Giuda?
Giuda è il traditore per antonomasia, archetipo di sé stesso fin dall’etimologia: il tranquillissimo verbo tradĕre, che aveva in latino il semplice significato di ‘consegnare’, assume connotazione negativa proprio in seguito all’episodio evangelico in cui Giuda consegna, per l’appunto, Gesù ai romani.
In molti si sono ispirati al Vangelo di Giuda sollevando nuove interpretazioni, di carattere soprattutto teologico e filosofico, spesso tese a riabilitarlo. In modi diversi, le questioni di fondo sono le stesse: Giuda era libero di scegliere diversamente? Quanto può essere colpevole di un destino a cui non poteva sottrarsi? È giusto farne un’icona del Male, dal momento che dal suo tradimento conseguono il sacrificio di Cristo e la remissione dei peccati?
Jorge Luis Borges con il racconto Tre versioni di Giuda, raccolto nel volume Finzioni (1944) affronta di petto le contraddizioni bibliche moltiplicando il personaggio e i suoi doppi, arrivando a raccontare, come da titolo, tre Giuda del tutto diversi (l’idea del doppio non dev’essere estranea al testo di Massini, dal momento che sia Lo Cascio che Pagliai interpretano Giuda); Il biblista inglese Hugh J. Schonfield col romanzo Il complotto di Pasqua (1965) descrive un Giuda in piena combutta con Cristo, per realizzare il disegno di Dio; Giuseppe Berto con il romanzo La gloria (Mondadori, Milano 1978) fa di Giuda un “umile strumento” al servizio di Dio e del suo disegno, riprendendo lo stesso concetto.
Così analizzato, scomposto in molteplici interpretazioni, Giuda finisce per diventare una questione filosofica più che un personaggio, un simbolo inautentico e ambiguo di cui fatichiamo a immaginare il carattere, che tendiamo a collocare nella speculazione più che nella realtà. Per riscoprirlo umano – mentre ci prepariamo ad assistere al Judah di Massini – dobbiamo piuttosto cercare tra i contributi dell’arte e della cultura contemporanea. L’arte ha infatti la fortuna di non avere funzione teologica, è chiamata cioè a porre domande più che a dare risposte; eppure secoli e secoli di dibattiti sul libero arbitrio impallidiscono di fronte all’immediatezza e potenza comunicativa di uno spettacolo, di un film o, perché no, di una canzone.
Giuda (se non l’hai capito), contenuta in uno dei primi album del cantautore italiano Roberto Vecchioni (Il re non si diverte, 1973) dà voce ad un Giuda polemico, che sfoga tutta la sua frustrazione accusando Cristo di averlo trattato come una pedina: «Ma il primo a uccidersi /per farti re /è stato quello che non salverai […] e ti serviva un uomo da usare e gettar via / appeso ai nostri buoni così sia». L’aspetto umano di Giuda è al centro di molte altre canzoni di autori e generi lontanissimi. In Giuda di Antonello Venditti è uno spaccone ormai pentito: «Oggi come allora / ero solo un uomo / ora un uomo solo / E mi grido dentro/ Tutto il mio dolore /L’ho pagata cara /La mia presunzione […]». In The Judas Kiss (Metallica), sinistro e vendicativo, invita chi l’ha spedito all’inferno a raggiungerlo: «Bow down, Sell your soul to me, I will set you free, Pacify your demons […]». In Judas (Lady Gaga) diventa – ovviamente – icona maudit e sottilmente erotica: «I’m in love with Judas […] I’ll bring him down, bring him down, down / A king with no crown, king with no crown […]».
Per non parlare del cinema, che da Jesus Christ Superstar (Jewison, 1973) a L’ultima tentazione di Cristo (Scorsese, 1988) rilancia un Giuda coraggiosamente ribelle.
Quella di Massini è la prima, rilevante incursione del teatro d’autore sul tema. Il contesto teatrale suggerisce fra l’altro un ulteriore, ambiguo gioco di specchi: sarà libero Giuda di uscire dal copione?
Alfredo Marasti
Giuda nel cinema, prima del Vangelo secondo Judah di Massini
La ripresa comincia da lontano inquadrando il paesaggio del deserto del Negev che colma ogni orizzonte, per poi stringersi velocemente su Giuda, la sua voce tremula ma pronta a deflagrare in un rabbia che scaturisce dall’amore e dall’indifferenza infiamma anche il paesaggio, ora febbrile per il caldo che ne rende instabili le sinuose linee, come in una visione delirante. È il film del 1972 di Norman Jewison, Jesus Christ Superstar, adattamento cinematografico del celebre musical musicato da Andrew Lloyd Webber, osteggiato in Italia dalla Chiesa Cattolica per il suo Giuda così irriverente, così umano. Il film si conclude con la crocifissione ma l’unico che “resuscita” davanti a noi è proprio Giuda. Ormai già da anni il Vangelo di Giuda è entrato a far parte di certa contro-cultura, che passa da Jorge L. Borges (in particolare nel racconto Tre versioni di Giuda pubblicato nella raccolta Finzioni nel 1944) per arrivare proprio a Jewison, circoli non propriamente legati alla cultura gnostica e che non prendono in considerazione il fulcro teologico di questo Vangelo apocrifo, ovvero la liberazione dell’anima tramite la morte, ma bensì il ruolo infame di Giuda Iscariota, talmente fedele al Cristo da seguire ogni suo ordine ciecamente, fino al tradimento.
Eppure ancora oggi resiste l’immagine di un Giuda come sinonimo di slealtà e perfidia, perpetuata nell’immaginario collettivo sopratutto al cinema. Già in uno dei primi “kolossal” cinematografici Giuda riveste il ruolo di traditore per antonomasia. Con i suoi ventisette quadri divisi in tre rulli La Vie et la passion de Jésus-Christ è il primo film sulla vita di Cristo, prodotto nel 1903 e co-diretto dal francese Ferdinand Zecca, uno dei padri del cinema sperimentale assieme al conterraneo Méliès e lo spagnolo Segundo de Chomón. Il film non dura nemmeno un’ora eppure la figura di Giuda risulta tanto sconvolgente quanto la crocifissione stessa, densa di una tragedia che però lo giudica senza appello. È del 1920 il terzo film di un trentenne Carl Theodor Dreyer, Blade of Satans Bog, il suo primo successo danese che riesce ad incastonare in un racconto perfetto le sue immagini colme di un lirismo quasi lisergico, sebbene inquadrate col suo solido rigore formale. In questo caso Giuda, dopo aver visto la Maddalena pulire i piedi di Gesù, crolla in una crisi isterica che lo porterà al solito tradimento, angosciato sopratutto da quella visione così irragionevolmente sensuale.
Molto più piatto e quasi deprecabile il Giuda de King of Kings, epica produzione della MGM del 1961, remake spirituale del bellissimo The King of Kings (1927) di Cecil de Mille celebre per il suo finale apocalittico. Nel film del ’61 di un cinquantenne Nicolas Ray la figura di Giuda è costantemente legata alla quella di Barabba, che prima rinnega seguendo Gesù ma al quale capezzale infine ritorna per impiccarsi, denunciandone quindi l’indole furfante. Forse la prima e vera rivisitazione di Giuda alla luce del Vangelo apocrifo (di cui nel frattempo erano uscite molte interpretazioni secondo ogni confessione) è proprio il Jesus Christ Superstar di Norman Jewison citato all’inizio. Il regista di Send Me No Flowers fa di Giuda il vero protagonista della sua pellicola, i primi versi del film sono suoi «My mind is clear now/ at last / all too well / I can see / where we all / soon will be» (Adesso ci vedo chiaro / finalmente / fin troppo chiaramente / io vedo / dove tutti noi / presto finiremo) profetici proprio come quelli di un messia. Dopo la crocifissione Giuda e Gesù si ritrovano nell’aldilà, dove Giuda continua a vessarlo di domande che non trovano risposta, adesso è lui il vero intercessore dell’umanità verso Dio, l’apostolo rinnegato che non vede il suo amore ricambiato e i suoi sacrifici riconosciuti. Il Vaticano fece delle non celate pressioni perché il film non fosse distribuito in Italia o che venisse almeno censurato in alcune sue parti, sia perché Gesù era rappresentato in modo imperfetto, più umano che divino, ma sopratutto per quel Giuda così irriverente e fastidiosamente razionale. Forse questo è il momento più alto nell’iconografia contemporanea di Giuda l’Iscariota. Del 1988 è L’ultima tentazione di Cristo, uno dei film più controversi nella lunga e straordinaria carriera di Martin Scorsese, un regista che ha sempre vissuto criticamente la propria tradizione religiosa (Mean Streets, Al di là della vita, Silence) sperimentando fin da bambino il forte contrasto tra quella europea e quella protestante americana.
Giuda è interpretato da un grande Harvey Keitel, ma il film è incentrato sul Cristo ancora più umano e persino patetico di quello di Jewison, Giuda nel film è effettivamente quello del Vangelo apocrifo. Questa è l’ultima volta che Giuda esce fuori dai suoi schemi predefiniti di traditore per eccellenza, il cui unico scopo è quello di intascare del denaro per poi crollare psicologicamente e suicidarsi (negandosi di fatto la possibilità di entrare in Paradiso secondo i dettami del cristianesimo), e anche stavolta viene da una pellicola oltreoceano, trovando spesso una discreta quando non feroce opposizione tra i credenti di molte confessioni. In fondo immaginarsi Giuda come fedele complice che, per permettere a Gesù di ricongiungersi col Padre ed espiare tutti i peccati del mondo si condanna ad una eternità di dolore, non piace a nessuno. Giuda sta bene così, nella sua superficiale veste di voltagabbana, debole per giunta; Giuda si uccide per la vergogna, mentre si perdona Gesù perché senza quel sacrificio non avrebbe potuto compiere il suo destino come Figlio di Dio, si perdonano persino gli Apostoli, che invece di sostenere il Messia nelle ultime sue ore lo ignorano, condannandolo all’indifferenza. L’unico che davvero comprende l’entità di quello che sta accadendo è proprio quel Giuda che sfida il destino e la dottrina, seguendo più che la fede un amore mai ricambiato.
Giuseppe Di Lorenzo
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Cronache, diari, approfondimenti, recensioni, presentazioni attraverso diversi linguaggi, in occasione della prima edizione del Pistoia Teatro Festival (18-25 giugno 2017). I contenuti del presente blog sono il frutto di un un laboratorio di critica e giornalismo coordinato da Altre Velocità che segue i ritmi e le forme del giornalismo quotidiano, anche in collaborazione con le redazioni pistoiesi de “Il Tirreno” e “La Nazione”.
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